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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1591. Perummélo, dímmer vero1

 

Tutt’er giorno se2 sente disputà
si er zanto Padre sce bbene o nnò.
Chi vvò cche cce lo vojji, e cchi nun ;
e ggnisuno sa ddí ccome la va.

 

Ce ttanto a scoprí la verità?
Bbast’a llègge l’editti, e llí sse3
capí ss’è ppicchiarella o ppicchiabbò:4
dar discorzo che ttiè SsuSantità.

 

Pe pparte mia, da quanto costa a mmé,
che cce mmale io nu lo posso ,
e in ne l’editti sui questo nun c’è.

 

Ah è ccerto, via, che cce bbene, :
ce un bene dell’anima... ciovè5
cce un bene da Papa, eccola cqui.

 

23 agosto 1835

 




1 Così i fanciulli della nostra plebe profferiscono le parole di una loro formula, le cui sillabe si vanno alternamente pronunciando e battendo, mentre col dito si tocca or questo or quel pugno di chi vi tiene nascosta alcuna cosa da indovinarsi in quale dei due si ritrovi. La formula è la seguente: Perummélo (pero e melo), dimmer vero: indove sta, cqui o cqua; dimme la santa verità. Dove cade l’ultima sillaba della scongiuro, ivi in buona regola dovrebb’esser chiuso l’oggetto cercato, ma non di rado la fortuna vien contraria alla fede.

2 Si.

3 Se.

4 Se è nell’un modo o nell’altro.

5 Cioè.

 

 






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