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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1837. La Tirnità de Pellegrini1

 

Ma la gran folla, la gran folla, sposa,2
in quella Tirnità de Pellegrini!...
Se stava un zopr’all’antro:3 era una cosa
da favve intorcinà4 ccome stuppini.

 

Ma a vvedé le paíne e li paíni!...
Uhm, la ggente der monno io nun zo,5 Rrosa,
quanno che nnun ze spenneno6 quadrini
com’ha da èsse7 mai ttanta curiosa.

 

S’è svienuta un’ingresa furistiera,
che Ddio lo sa ssi8 arriverà a ddimani.
Pareva una cuccarda ggialla e nnera.

 

Eppoi che cce se vede,9 sposa mia?
Maggnà e bbeve10 dupreti e dduvillani:
gusto che ppòi levatte11 a oggnosteria.

 

31 marzo 1836

 




1 La Trinità de’ Pellegrini: ospizio, dove i pellegrini sono mantenuti per tre giorni. Nelle sere più solenni della settimana santa ivi è concorso di curiosi, per vederli cenare serviti dai confratelli in sacco rosso, color di polmone, fra i quali per affettata umiltà si annoverano principi e talora anche piccoli sovrani.

2 Pronunziato coll’o chiusa.

3 Si stava un sopra all’altro.

4 Da farvi rintorcere.

5 Non so.

6 Non si spendono.

7 Essere.

8 Se.

9 Che ci si vede.

10 Mangiare e bere.

11 Che puoi levarti.

 

 






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