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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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64. La mala fine

 

Ahó Cremente, coggnosscevi Lalla1


la mojje ch’era de padron Tartajja
prima cucchiere e ppoi mastro-de-stalla
de... aspetta un po’... der Cardinàr-Sonajja?2

 

Bbe’, gglieri, all’ostaria, pe ffà la galla3
e ppe la lingua sua che ccusce e ttaja,
buscò da n’antra donna de la bballa4
’na bbotta, sarvoggnuno, all’anguinajja.

 

A ssangue callo5 parze5a ggnente: abbasta,6
quanno poi curze er cerusico Mori,
je sc’ebbe da ficcà ttanta7 de tasta.

 

Sta in man de prete ppe cquanto pesa:8
e ssi9 la lama ha ttocco l’interiori,
Iddio nun vojji la vedemo in chiesa.

 

Terni, 29 settembre 1830 - De Pepper tosto

 

 




1 Adelaide.

2 Del Cardinal Della Somaglia.

3 Il far la galla equivale peRomani al «far la civetta».

4 Dello stesso calibro, della medesima condizione.

5 Caldo.

5a Parve.

6 Peraltro.

7 Così dicendo si indica la misura sul dito.

8 Questa espressione indica uno stato di vita così incerto e vacillante, come l’equilibrio di una bilancia che accenni a uscir di bilico.

9 Se.

 

 






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