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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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127. Er zervitore in zala

 

«Chi è?» «Amici». «Favorischi puro:1


Entri drento, lustrissimo». «Addio, Tacchia».
«Oh ggente! sto paino2 c’aricacchia,3
lui mette er chiodo, e la padrona er muro.4

 

Er povero sor Conte stosso duro
nun vorrebbe iggnottillo,5 ma ssabbacchia.6
Già cc’ha arzato le penne de cornacchia,
nun ffà rride er monno, io me figuro.

 

Pe mmé nnun parlo mai, perch’ho pprudenza:
che ssi vvolessi , cce n’ho, Mmadonna!,
d’empinne un cassabbanco7 e ’na credenza.

 

Bbasta, l’amico ch’è mo entrato, affonna;8
lui9 abbozza;10 ma llei ch’è dde cuscenza,
a uno la fa cquadra e all’antro tonna».11

 

A Valcimara, 28 settembre 1831 - De Peppe er tosto

 

 




1 Pure.

2 Zerbino.

3 Ricacchiare vale «risbocciare, ricomparire dopo essersi alquanto dilungato».

4 Metafora indicante intrigo carnale.

5 Inghiottirlo.

6 Si accomoda, cede, abbassa l’umore.

7 Panca ove si assidono i servi nelle sale.

8 dentro.

9 Lui, assolutamente nella bocca de’ servi, vale sempre «il padrone», come in quella delle mogli significa «mio marito».

10 Questo verbo corrisponde perfettamente al senso dell’endurer dei francesi.

11 Farla tonda, cioè «farla pulita», inganna entrambi.

 

 






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