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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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232. Primo, nun pijjà er nome de Ddio in vano

 

Bbada, nun biastimà, Ppippo, ché Iddio
è Omo da risponne pe le rime.
Ma che ggusto sce trovi a ste biastime?
Hai l’anima de turco o dde ggiudío?

 

C’è bbisoggno de curre in zu le prime
a attaccà cor pettristo e cor pebbío?1


Chi a sto monno ha ggiudizzio, Pippo mio,
pijja li cacchi e lassa stà le scime.2

 

Poi, sce ttante bbelle parolacce!
Di’ ccazzo, ffreggna, bbuggera, cojjoni;
ma cco Ddio vacce cor bemollo3 vacce.

 

Ché ssi lleva a la madre li carzoni,4
e jje se sciojje er nodo a le legacce,5
te sbaratta li moccoli6 in carboni.

 

Roma, 12 novembre 1831 - D’er medemo

 

 




1 Equivalenti per chi vuole e non vuole bestemmiare.

2 La pianta principale del cavolo-broccolo in Roma è detta una cima, e i suoi rigermogli cacchi. Quindi la morale dell’Offendi i minori e rispetta i grandi.

3 Vacci col bimolle, adagio, tenuamente.

4 Una donna che siasi usurpata l’autorità dell’uomo, dicesi in Roma essersene messa i calzoni: e perciò qui Cristo deve riprendersi i suoi calzoni, poiché presso il volgo di questa città la Madonna va sempre dinnanzi al figliuolo, ed anche al padre del figliuolo.

5 Legami delle calze attorno a’ ginocchi: qui «perder pazienza».

6 Sinonimo di «bestemmia».

 

 






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