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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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442. Le cose perdute

 

Ebbè?, pperché tte sei perzo1 l’anello
de tu’ cugnata fai tanto fracasso!
Eh ddier zarmo cqui abbita,2 fratello,
che sse venne stampato a ssan Tomasso.

 

Nun ce ccazzi,3 cristo!, è un zarmo cuello
che ttra li sarmi der Zignore è llasso:4
che ssi mmagaraddio perdi er ciarvello,
lo troveressi in culo a Ssatanasso.

 

In caso poi de furto, Pippo mio,
stenni una gabboletta risponziva,
o ffaffà5 lla garafa da un giudio:

 

indove, appena scerto6 fume sbafa,7
comparisce la faccia viva viva
der ladro propio immezzo a la garafa.

 

Terni, 11 novembre 1832 - Der medemo

 




1 Perduto.

2 «Qui habitat in adiutorio Altissimi…». Psal. xc.

3 Non v’ha dubbio o difficoltà.

4 È il primo; metafora presa dal giuoco della briscola.

5 Fa’ fare.

6 Certo (la c striscicata).

7 Svapora.

 

 






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