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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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465. L’ammantate1

 

Ah fu un gran ride e un gran cascerro2 gusto
quer de vede passà ttante zitelle
co la bbocca cuperta, er manto, er busto,
le spille, er zottogóla, e le pianelle!

 

Tutte coll’occhi bbassi ereno ggiusto
da pijjalle pe ttante monichelle,
chi nun sapessi cuer che ssa sto fusto3
si cche ccarne sce sta sotto la pelle.

 

Nerbi-grazzia, Luscía l’ho ffregat’io:
Nena? ha ffatto tre anni la puttana,
e Ttota è mmantienuta da un giudio.

 

E la sora Lugrezzia la mammana4
n’ariconobbe dua de bborgo-pio:5
inzomma una ogni sei nun era sana.

 

Roma, 20 novembre 1832 - Der medemo

 




1 Vedesi la nota 3 del Sonetto intitolato La Nunziata. Qui solo si aggiunga che le dotate non vogliono andar esse stesse personalmente alla processione, ma vi mandano altre in lor luogo con la mercede di cinque paoli.

2 «Soddisfacente», contrario a tareffe, «spiacevole, guasto, ecc.»: voci entrambi entrambe tolte agli Ebrei del Ghetto di Roma.

3 La mia persona.

4 Ostetrica.

5 Contrada di Roma presso il Vaticano.

 

 

 






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