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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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493. Le spille

 

Chi ddà una spilla a un antro che vvò bbene,1


se perde l’amiscizzia in pochi ggiorni.2
Er zangue je se guasta in de le vene,3
e vvatte a rripescà cquannaritorni!4

 

Si ssò sgrinfi,5 principieno le pene:
si ssò sposi, cominceno li corni:
e ggià in un mese de ste bbrutte scene
n’ho vviste cinqu’o ssei da sti contorni.

 

Ne li casi però ch’in testa o in zeno
d’appuntavve un zocché,6 ssora Cammilla,
nun potessivo fanne condimeno,7

 

a cquela mano che vve esibbilla8
dateje, pe ddistrugge sto veleno,
’na puncicata9 co l’istessa spilla.

 

Roma, 27 novembre 1832

 




1 A cui vuol bene.

2 La sintassi degli antecedenti due versi dia un saggio della reale de’ Romaneschi.

3 Guastarsi il sangue verso di alcuno, vale: «prenderlo in odio».

4 Vatti a cercare quando ritorni a salute.

5 Amanti.

6 Un non-so-che.

7 Farne a meno.

8 Vuole esibirla.

9 Puntura.

 

 






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