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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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535. Una lingua nova

 

Cuer Giammaria che ttinzurtò a Ttestaccio,1


e mmo assercita l’arte de la spia,
passava mercordí dda Pescaria2
co ttanto de tortore sott’ar braccio.

 

Ner travedello, io che nun zo che ssia,3
ma nu lo pòzzo sscerne cuer mustaccio,
arzo un zercio4 da terra, e ppoi jje faccio:
«A la grazzietta padron Giammaria».

 

«Chi è?» ddisce svortannose er gabbiano:
e, ppunf, in ne li denti io je rispose
co cquer confetto che ttienevo in mano.

 

«Nun ve pijjate pena de ste cose»,
dico «perché cquest’è, ssor paesano,5
la lingua de parlà co le minose».

 

Roma, 2 dicembre 1832 - Der medemo

 




1 Luogo dove la plebe corre nella primavera, e più in ottobre, gozzovigliare, stanteché nel monte formatosi ne’ bassi tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi vini. Il prato inoltre, che trovasi innanzi al detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio, è molto opportuno ai sollazzi romorosi. Anzi ne’ secoli andati la città di Roma suoleva darvi i pubblici e talora crudi e cruenti spettacoli. In un canto di esso prato trovasi il cemetero de’ riformati.

2 Mercato principale del pesce, fra gli avanzi del magnifico porico di Ottavia.

3 Non comprendo il perché.

4 Selce.

5 Spia.

 

 






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