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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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621. La patta1

 

Ch’edè? tte sei ’mpegnato a ccallaroste2
l’avanzo er piú mmillesimo de testa?
E nnun t’abbasta che ssii mezza festa,3
c’arrubbi puro la sarviett’a lloste?4

 

A ffalla mejjo io m’arzerebbe cuesta
pe mmostrà le mi’5 bbuggere anniscoste:
la zazzera, er zalame, l’ova toste,
la sbarratura,6 e un tantinel de pesta.7

 

Fa le su’ cose sto cazzaccio matto,
eppoi lassa scuperto l’artarino!
Sai c’hai raggione? Che nun c’era er gatto.

 

Stincertiggna lassalli8 a ddon Grespino
e llantri preti ch’er Zignore ha ffatto,
ché ttocca a lloro de mostrà er bambino.

 

Roma, 17 dicembre 1832 - Der medemo

 




1 Il portellino delle brache.

2 Dare in pegno a sconto di caldarroste.

3 Allorché vedesi alcuno con la patta sbottonata, gli si chiede se sia mezza festa, che in frasario romano vale festa di divozione e non di precetto.

4 Aver rubato la salvietta all’oste, importa: «tenere la camicia per inavvertenza fuor delle brache».

5 In questo luogo il mie equivale al tue.

6 Il cinto.

7 Peste.

8 Bisogna lasciarli.

 

 






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