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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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826. Er granturco1

 

Disse er Zurtano a un tar governatore:
«Impicchete, vassallo, e tte perdono».
Er vassallo arispose ar Gran-Ziggnore:
«Dàmme un anno de tempo, e tte la sòno».

 

E ggià er padrone nun sta ppiú ssur trono:
già ccià2 mmesso le chiappe er zervitore:
e attenti, mordivói, ché mmó vviè er bono,3
strillò er giudio che sse cacava er core.

 

Visto er Granturco a ppassà gguai lo sscetro,
messe4 er tesoro suo sopra un carretto,
e scappò vvia co le puttane addietro.

 

Er Papa ha ppianto, e jj’ha scritto un bijjetto,
discenno:5 «Fijjo mio, curre6 a Ssan Pietro,
dove se accordà Ccristo e Mmaometto».

 

Roma, 25 gennaio 1833

 




1 Corse una voce che Ibrahim Pascià, figlio di Mèhemet Alí viceré d’Egitto, fosse arrivato a Costantinopoli. La novella (benché incredibile al tempo che fu sparsa, che fu quello della vittoria sul Gran Visir), diede luogo al seguente Sonetto, fondato sopra alcune opinioni pubbliche.

2 Ci ha.

3 Specie di ditterio, usato ne’ momenti d’aumento di danno, Il vocabolo «mordivoi» è una esclamazione de’ moderni ebrei romani.

4 Mise.

5 Dicendo.

6 Corri.

 

 






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