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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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847. Er pesscivennolo1

 

Er Zantocchio2 che bbascia le paggnotte,
che ttutte le matine sente messa,
che le notte che cc’è la mezza-notte3
nun maggnería cuer ch’è una callalessa,4

 

c’ha scrupolo a ssentí pparlà dde fessa,
e abbruscerebbe vive le miggnotte,5
mentre che in verbarticolo de fotte
lo schiafferebbe in culo a un’Abbatessa;

 

invesce de pagamme6 er zangue mio,
pijja er pessce, e mme disce chiar’e ttonno:
«N’averai tanta grolia avant’a Ddio».

 

E io, che nnun ciabbozzo,7 jarisponno:
«Sta moneta nun curre in ner cottío.8
La grolia in Celo, e li quadrini ar Monno».

 

Roma, febbraio 1833

 




1 Il pescivendolo.

2 «Santone», «santo», in modo ironico.

3 Allorché viene un giorno di vigilia, o simili altri, ne’ quali debbasi digiunare, si dice la sera antecedente «esservi la mezzanotte», oltre il qual termine sarebbe peccato il cenare.

4 Pel peso di una caldalessa: castagna lessa.

5 Meretrici.

6 Pagarmi.

7 Abbozzare: uniformarsi, rassegnarsi, etc.

8 Apprezzamento del pesce in pescheria, che si fa la mattina quasi colle leggi di un pubblico incanto.

 

 






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