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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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850. Er tempo bbono

 

Ah,1 nnun è ggnente: è un nuvolo che ppassa.
Eppoi nun zenti che nnun scotta er zole?2
Eppoi, come a mmé er callo nun me dole
nun piove scerto. Ah, è una ggiornata grassa.

 

Mentre portavo a ccasa le bbrasciole,3
c’era una nebbia in celo bbassa bbassa...
Lo sai, la nebbia come trova lassa:4
nun pole5 piove, via, propio nun pole.

 

Lo capimo da noi, sora ggialloffia,6
che cquanno è ttempo rosso a la calata,
ne la matina appresso o ppiove o ssoffia.

 

Io nun vedde però nne la serata
le stelle fitte: duncue, ar piú, bbazzoffia7
polèsse oggi, ma nnò bbrutta ggiornata.

 

Roma, 2 febbraio 1833

 




1 Questa è una interiezione, dinotante nel caso presente che la opinione di chi parla è diversa da quella di chi ascolta, intorno al soggetto in quistione. Per pronunciarla a dovere, devesi mandare un suono dubbio, accompagnato da un leggero crollamento di capo e da una smorfia di labbra.

2 Le stelle dense, il sole che scotta, sono pel volgo forieri di pioggia. L’indizio delle stelle è dei due il più stupendo.

3 Bragiuole.

4 Lascia.

5 Pole, talora puole, sono termini ricercati, che chi si picca di ben parlare adopera invece di può: e questo per analogia di vuole.

6 Donna giallastra.

7 Il bazzoffio è una specie di quid-medium.

 

 






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