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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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892. Li miseroschi1

 

Che vvor sto succhià, bbrutti paíni?2
Che sso, mmai ve rodessi3 er terenosse!4
ffía5 de bbona madre, e a mme le sbiosse6
nun me le sona chi nnun cià7 cquadrini.

 

Co nnoi li scarzacàni?8 heh heh, cche ttosse!9
che ccatarro da marva10 e zzuccherini!11 Sori sfrizzoli12 agretti e ttenerini,13
cqua nun c’è ppasso c’a le bborze grosse.

 

Si sse metteno14 ar torchio li corpetti,
nun ce sprèmeno l’arma d’un baiocco
da sfamasse15 a ppatate e a ggrasscioletti(12)

 

e cce viengheno16 a ddí: ssucchia sto cocco!
Succhiatelo tra vvoi co li culetti,
contentanno17 accusí mmànico e ffiocco.18

 

Roma, 12 febbraio 1833

 




1 Miserabili, detti così in via di scherno.

2 Zerbini.

3 Rodesse.

4 Le ossa: voce tratta dal pater-noster che termina nella bocca del popolo «e tterenosse inducasse in tentazione», ecc.

5 Figlia.

6 Colpi di Venere.

7 Ci ha: ha.

8 Scalzi per miseria.

9 Pretensione, vanità, ecc.

10 Malva.

11 Vedi la nota... del Sonetto...

12 «Grascioletti»; quel che rimane della torcitura della sugna, bollita onde estrarne il distrutto. Sono insomma i così detti sfrizzoli stretti da torchio in un masso, che, tagliati e venduti a fette, mangiansi dal volgo con una schifosa avidità. Si nome di sfrizzolo a persona magra della persona e asciutta di danaro.

13 «Agri e teneri», cioè guitti, miserini.

14 Se si mettono.

15 Sfamarsi.

16 Vengono.

17 Contentando.

18 Vedi i Sonetti

 

 






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