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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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978. Er madrimonio sconcruso

 

Ggnente: nun c’è ppietà: nnun m’arimovo.1


Io pe la tiggna,2 bbella mia, llasso.3
Ho ppiú ttostezza io cco llei, che un zasso
che ffascessi a scoccetto cor un ovo.4

 

Pe nun guardalla mai quanno la trovo,
vado tutto intisito5 e a ggruggno6 bbasso,
come un pivetto7 che la festa a spasso
sa d’avé addosso er vistituccio novo.

 

Lei m’aveva da mmeno dispetti:
m’aveva da tiené mmejjo da conto,
e ffàsse8 passà vvia tanti grilletti.9

 

Io sposalla? è impossibbile: nun smonto.10
Sc’è ttropponore tra li mi’ parenti
perch’io vojji pe llei fàjje11 staffronto.

 

Terni, 29 maggio 1833

 




1 Non mi piega.

2 Per la ostinazione.

3 Sono l’asse: metafora presa dal giuoco di carte, così detto della briscola, nel quale l’asse è la carta superiore.

4 Si giuoca a Roma dalla plebe percuotendo colla parte più acuta di un uovo allessato (chiamato ovo tosto) sulla stessa parte d’un uovo simile che tiene in mano l’avversario. Colui, il guscio del cui uovo si frange all’urto, perde il giuoco: e ciò dicesi fare a scoccetto.

5 Teso, ritto.

6 Volto.

7 Fanciullo.

8 Farsi.

9 Capricci.

10 Non discendo, non cedo.

11 Fargli, per «far loro».

 

 






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