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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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988. Settimo,1 seppellì li morti

 

Bbast’a vvede2 sto bboja de Curato
si3 ccome seppellí Bbonaventura!
che ffussi puro4 stato scopatura,
l’averebbe ppiú mmejjo bben trattato.

 

Ma cquanno che ccrep’io, per dio sagrato,
vojjo stenne5 una bbrava scrittura
che bbuttannome drento in zepportura
me sce mettino bbello arissettato.

 

Bbisognèsse ggiudii6 pe nnun capilla7
che ffa ppiú ccosa8 er zeppellicce9 bbene
che de cantacce10 in culo una diasilla.

 

Perch’io sentivo ssempre da Nonno
che llanima arimane in de le pene
come ch’er corpo suo casca a sto monno.11

 

Temi, 19 ottobre 1833

 




1 La settima opera di misericordia corporale.

2 A vedere.

3 Se.

4 Fosse pure.

5 Voglio fare stendere.

6 Essere giudei.

7 Per non capirla.

8 Fa più cosa: rileva più; influisce più.

9 Il seppellirci.

10 Di cantarci.

11 La Chiesa grida che il dannato aut ad austrum, aut ad aquilonem, in quo loco ceciderit, ibi erit. Il volgo porta più in la credenza, dappoiché moltissimi hanno per articolo di fede che come il corpo si avviene a cadere nel sepolcro cosí l’anima cade e resta per sempre nell’inferno. Che se la cosa va realmente cosí, pare prenderne consistenza la opinione di qualche dotto scrittore che pensa i dannati giacere resupini e a strati come le acciughe in barile; e il fuoco eterno, compenetrando quei suoli, fare le veci del sale per la conservazione della materia che strugge.

 

 






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