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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1029. La Terra e er Zole

 

Ggira er Zole o la Terra? Uh ttatajjanni1


imbottiti de rape e ccucuzzole!
Abbasterebbe a gguardà inzú, bbestiole,
senza stasse2 a ppijjà ttutti staffanni.

 

Invesce de spregà ttante parole,
dite, chi è cche dda un mijjone d’anni
essce sempre de dietro a Ssan Giuvanni
e vva ddietr’a Ssan Pietro?3 eh? nnun è er Zole?

 

Ch’edè4 cquer coso tonno5 oggni matina
che vve passa per aria su la testa?
Dunque è la terra o ’r Zole che ccammina?

 

Sippuro6 nnun è er dubbio che vve resta,
vedenno7 oggni Minente8 e oggni paína9
nun poté arregge10 a ttiené ggiú la vesta.11

 

27 novembre 1833

 




1 Stolidi.

2 Starsi.

3 Chiese de’ due Santi, prese pe’ due punti orientale e occidentale di Roma.

4 Che è?

5 Quell’oggetto rotondo.

6 Seppure.

7 Vedendo.

8 Donna del volgo, specialmente di alcuni rioni.

9 Cittadina.

10 Non poter reggere, riuscire.

11 A tener giú la vesta. La malizia del nostro romanesco riproduce in certo modo le obiezioni vecchie de’ frati intorno agli uomini a capo-in-giù, ai pozzi rovesciati, e a tante altre luminose considerazini che fruttarono la frusta inquisitoriale a Galileo Galilei. Vorremo noi dire che fosse quello il primo e l’ultimo errore de’ frati e de’ loro confratelli da chierca?

 

 






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