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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1083. Er Papa Micchelaccio1

 

Sai che ddisce2 sta perzica-durasce?3
«Ho fatto tanto pe arrivà ar Papato,
che mmó a la fine che cce arrivato
io me lo vojjo gode4 in zanta pasce.

 

Vojjo bbeve5 e mmaggnà ssino c’ho ffato:
vojjo dormí cquanto me pare e ppiasce;
e ar Governo sce penzi chi è ccapasce,
perch’io nun ce n’ho spicci6 e ssò Ppilato».7

 

Lui nun l’ha un cazzo8 er maledetto vizzio
de crede9 che cquer bon Spiritossanto
j’abbi dato le chiave pe un zupprizzio.

 

E le cose accusí vvanno d’incanto.10
la pacchia11 è la sua: poi chi ha ggiudizzio
quanno ch’è ppapa lui facci antrettanto.12

 

14 marzo 1834

 




1 Maggnà, bbeve e annà a spasso: Ecco l’arte der Micchelaccio. Questi sono due versi rimati che rinchiudono una sentenza romanesca.

2 Dice.

3 Pèsca-duràcina: dicesi di coloro che hanno robusta complessione. Tale è infatti quella del nostro sommo Pontefice Gregorio xvi, che Iddio guardi nella sua santa custodia.

4 Voglio godere.

5 Bere.

6 Non averne spicci (spicciolati) è metafora presa dalla moneta, quasi volesse dirsi: «io non ne ho per questo mercato».

7 Sono Pilato, cioè: «me ne lavo le mani».

8 Non l’ha affatto.

9 Di credere.

10 Vanno a maraviglia bene.

11 Pacchia è «tutto ciò che di comodo ed utile ci derivi dalla fortuna». Potrebbe servir di sinonimo a cuccagna.

12 Faccia altrettanto.

 

 






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