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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1112. La prelatura de ggiustizzia

 

Nun ve la venno1 mica pe ssicura,
ma ccome io puro l’ho ccrompata2 adesso;
perché cciò3 er mi’ gran dubbio c’a un dipresso
fussina cojjonella4 o un’impostura.

 

Dicheno5 c’uno che vojji èsse6 ammesso
pe mmano de ggiustizzia in prelatura,
avanti d’annà in opera e in figura
è cchiamato, e jjincarteno un proscesso.7

 

Io l’oppiggnone mia ggià vve l’ho ddetta:
chi vvolete che ssii tanto cojjone
da fasse8 appiccicà cquela pescetta?9

 

Co sto proscesso sai quante perzone
invesce d’abbuscà10 la mantelletta
saríeno asposte11 a tterminà in priggione.

 

19 marzo 1834

 




1 Vendo, ma qui sta per «dico».

2 Comperata, per «udita».

3 Ci ho.

4 Una beffa.

5 Dicono.

6 Essere.

7 Allude al processo che sostengono coloro che aspirano ad una prelatura non di grazia. In questo processo su esaminano i meriti personali, il sangue della progenie, la condizione, e più di tutto il censo del candidato. Ma poi tutto va come può.

8 Farsi.

9 Appiccicare una pecetta sarebbe come «applicare un cataplasma di dubbia azione».

10 Buscare.

11 Sarebbero esposte.

 

 






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