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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1116. Er boja

 

Er guajo1 nun è mmica che cqui oggnanno
ar Governo2 nun fiocchino3 proscessi:
li delitti, ppiú o mmeno, l’istessi,4
e, ppe ggrazzia de Ddio, sempre se5 fanno.

 

Ecchelo6 er punto indove sta er malanno:
che mmó li ggiacubbini se 7 mmessi
drent’a li loro scervellacci fessi8
ch’er giustizzià la ggente è da tiranno.

 

ccabbino9 li preti stoppiggnone:10
sempre però una massima cattiva,
dàjje, dàjje,11 la fa cquarchimpressione.

 

E accusí, ppe llassà12 la ggente viva
s’innimmicheno er boja, ch’è er bastone
de la vecchiaja de li Stati. Evviva!

 

18 marzo 1834

 




1 Il guaio: la sventura.

2 Il Governo è qui inteso pel «Palazzo della Giustizia», chiamato con quel nome.

3 Non abondino.

4 Sono nello stesso numero.

5 Si.

6 Eccolo.

7 Si sono.

8 Stravaganti.

9 Non già che abbiano, ecc.

10 Questa opinione.

11 Dàgli dàgli: a forza di operare col ripetersi frequente.

12 E così, per lasciare.

 

 






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