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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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31. Er gioco der lotto

 

M’è pparzo all’arba de vedé in inzògno,
cor boccino in ner collo appiccicato,1


quello che glieri a pponte2 hanno acconciato
co ’no spicchio d’ajjetto in zur cotogno.3

 

Me disceva: «Tiè, Ppeppe, si4 hai bbisogno»;
(e ttratanto quer bravo ggiustizziato
me bbuttava dunocchie in zur costato):
« ppoche, Peppe mio, me ne vergogno».

 

Io dunque ciò ppijjato oggi addrittura
trentanove impiccato o cquajjottina,
dua der conto, e nnovanta la pavura.5

 

E cco la cosa6 che nnemmanco un zero
ce sta ppe nnocchie in gnisuna descina,
ho arimediato cor pijjà Nnocchiero.

 

19 agosto 1830 - De Peppe er tosto

 

 




1 Col capo ricongiunto al collo artificialmente.

2 «Ponte Sant’Angiolo», uno de’ luoghi ordinarii per le esecuzioni.

3 Cotogno, cioè «testa». «Spicchio d’aglietto», d’aglio, ironia di «mannaja».

4 Se.

5 Questi numeri si cercano nel così detto Libro dell’Arte, dove è come un dizionario di nomi accanto ad altri numeri giuocabili.

6 E pel motivo.

 

 






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