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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1185. La fatica

 

Nun te senti a ssonà cche stangonia1


da l’abbati cor furmin’a ttre ppizzi:2
«Fijji, trovate a ffaticà, ppe vvia3
che llozzio è ’r padre de tutti li vizzi.

 

Loro4 penzino a ssé: ppe pparte mia
io l’aringrazzio de sti bboni uffizzi.
Io er giorno accatto,5 e ppo’ a la vemmaria
pe ddormí, a Rroma, sce bboni ospizzi.6

 

Jeri anzi un prete ch’è ssemprimbriaco7
me fesce:8 «Ar manco,9 fijjo mio, lavora
pe ammazzà er tempo». Ma io me ne caco.

 

E jjarispose:10 «Sor don Fabbio Sponga11 ammazzatelo voi, perch’io finora
vojjo la vita che mme pari12 longa».

 

9 aprile 1834

 




1 Agonia. «Non ti senti che a ripetere questo mal suono», ecc.

2 Fulmine a tre pizzi: il cappello triangolare de’ preti.

3 Poiché.

4 Eglino.

5 Accattare, per semplicemente questuare.

6 Ci sono buoni ospizi. V’è quella fondato dalla matrona romana S. Galla, della famiglia degli Odescalchi, il nome della qual santa difficilmente giungerà a farsi assumere da alcun’altra matrona. Galla qui equivalendo a «civetta, pettegola».

7 Ubbriaco.

8 Mi disse.

9 Almeno.

10 Gli risposi.

11 Sponga (spugna): colui che succia assai vino; ubbriacone.

12 Mi paia.

 

 






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