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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1316. Er vino e ll’acqua

 

Io nun pòzzo1 soffrí ttutte ste lite2
c’hanno sempre da fà Cciocco e Ffreghino,
si3 cche ccosa è ppiú mejjo, o ll’acqua o ’r vino.
Du’ parole e ssò4 ssubbito finite.

 

Chi lloda l’acqua, io je direbbe: «Dite:
pe bbeve5 un mezzo6 ve sce vò7 un lustrino.8
Pe un bicchier d’acqua poi cor cucchiarino9
v’abbasta un mille-grazzie, e vve n’usscite.

 

Dunque che vvale ppiú? cquella c’allaga
Piazza-Navona10 auffa,11 e cce se ssciacqua
li cojjoni, o cquell’antro che sse12 paga?

 

E ffinarmente, a vvoi:13 cqua vve do er pisto.14
Ch’edè,15 ssori cazzacci, er vino o ll’acqua,
che vve pò ddiventà ssangue de Cristo?».

 

22 giugno 1834

 




1 Posso.

2 Queste liti.

3 Se.

4 Sono.

5 Per bere.

6 Un mezzo boccale.

7 Vi ci vuole.

8 Mezzo paolo d’argento. Un grosso.

9 Per beffare coloro che al caffè non prendono mai cosa alcuna, si dice che ordinano un bicchiere d’acqua col cucchiarino.

10 Si allude all’allagamento di detta piazza che si fa in ogni sabato e domenica di agosto.

11 Gratis. Vedi nota del Sonetto...

12 Si.

13 A vvoi: quasi: «orsù concludiamo».

14 Qua vi sconfiggo, vi confondo.

15 Che è.

 

 






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