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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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2175. L’orloggio

 

E ddajje co Ppio nono! e ggni paese
mó aricopia st’usanza scojjonata
de portà ’na bbanniera inarberata
tra ccanti e ssoni e ttra ccannele accese.

 

E intanto er zanto padre ha la corata
d’arimette l’orloggio a la francese.1


Un papa! ammalappena ar quarto mese
der papatico suo! Bbrutta fumata!2

 

Disse bbene er decan de Lammruschini
ar decan de Mattei: «Semo futtuti:3
cqua ttorneno a rreggnà li ggiacubbini».

 

Sto sor Pio come vòi ch’iddio l’ajjuti
quanno sce viè a imbrojjà ppe li su’ fini
sino l’ore, li quarti e li minuti?

 

22 ottobre 1846

 




1 Il pubblico orologio del palazzo pontificio al Quirinale, pari ad altri orologi di Roma, ebbe finora il quadrante diviso in sole sei ore, le quali, mandandosi esso orologio alla romana, facean perciò in un dí quattro uficii, cioè di ore 6, di 12, di 18 e di 24. La campana peraltro battea di 12 in 12. Da questi elementi nasceano tal bizzarre combinazioni, che uno svizzero della guardia ebbe un giorno ad esclamare: Oh Griste sante! Segnar guattre, sonar tiece e star fentitua! Pio ix fa ora cangiare il quadrante, che segnerà quindi all’astronomica. Agli stazionarii questa innovazione non piace.

2 Brutto preludio.

3 Rovinati.

 

 






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