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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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366. Er cane furistiero

 

Sete voi la padrona de cuer cane
che vviè a mmagnà l’avanzi cquà dall’oste
e scrope1 li tigami, e arrubba er pane,
e ssi sse caccia via sarta2 a le coste?

 

Duncue da parte sua v’ho d’avvisane
che sta bbestia je svia tutte le poste,
e pportassi3 per dio cento collane
er mi’ padrone je vo ddà le groste.4

 

E aricurrete poi, sora paìna,5
cuann’er cane è slombato in su la piazza,
ar giudice Accemè de la farina.6

 

Voi ggià rrugate perché ssú a Ppalazzo
ciavete7 er sor Ennenne,8 ché pper dina
tra ccani nun ze mozzicheno un cazzo.

 

 22 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto

 

 




1 Scopre.

2 Salta.

3 Portasse.

4 Dar le groste: battere.

5 Azzimata.

6 Qui, tra per ischerno ed ignoranza, colui che parla confonde il giudice A. C. Met., cioè l’uditore della camera stesso, Auditor Camerae Met., e l’altro della farina, magistrato in oggi a Roma non esistente, ma al quale per derisione si esortano a ricorrere coloro che non troverebbero giustizia altrove sulle loro querele.

7 Ci avete.

8 Questo nome di Ennenne è tratto dai due protogrammi N.N. che si pongono, scrivendo, nel luogo che dovrà occupare un nome personale.

 

 






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