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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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389. Le porcherie1

 

Er tempo manna o ffurmini o ssaette
siconno er genio suo come je cricca.
Cueste sò pe nnoi ggente poverette:
quelli sortanto pe la ggente ricca.

 

Cuelli sò llavorati a ccolonnette,
però er furmine roppe e nnun ze ficca.
L’antre sò ppietre poi2 segate a ffette
e arrotate all’usanza d’una picca.

 

Me l’ha spiegato a mmé lo scarpellino
che ffa l’artare a Ssan Zimon Profeta3
che ssa ste cose com’er pane e ’r vino.

 

Tu mmette bbocca4 cuanno er gallo feta
e la gallina piscia, ché er boccino5
lo tienghi uperto come una segreta.

 

30 gennaio 1832 - De Pepp’er tosto

 

 




1 I Romaneschi che hanno sempre per la bocca i fulmini e le saette in via d’imprecazione, sentono poi certa ripugnanza superstiziosa al far menzione di questi fenomeni, quasi temessero di chiamarsene addosso: e vi sostituiscono la parola porcheria. Dovendone poi dire il nome, non mancano di mandargli appresso una formola preservativa, come: Dio salvi ognuno; Salvo dove me tocco, ecc. La distinzione qui data della natura e della forma de’ fulmini e delle saette è di vera credenza popolare.

2 Al contrario.

3 Chiesetta di Roma.

4 Tu di’ il tuo parere, interloquisci.

5 Testa, per lo più nel risguardo morale.

 

 






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