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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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980. Le quattro tempora1

 

Sete curioso voi! Avevio2 fame
e nnun c’era antro3 da maggnà, nnun c’era!
Queste nun zò4 rraggione pe jjerzera!
De tempora un par d’ova in ner tigame?!5

 

Nò, nnò, mmanco6 una fetta de salame.
Iddio nun porta in mano la stadera.
Com’è rrobba províbbita, chi spera
ne la pochezza è un giacubbino infame.

 

Vedi: si ppuro7 avessi, padron Biascio,8
le vertú dde millanta Salamoni,
tant’e ttanto9 ar maggnà bbiggna annà adascio.10

 

Perché, ffratello, in quell’antri carzoni11 pesa ppiú un ovo e una grosta de cascio
che ttutte ste Vertú dde li cojjoni.

 

15 agosto 1833

 




1 I quattro-tempi dell’anno, cioè i digiuni e le astinenze dalle carni che la Chiesa prescrive nei giorni di mercoldí, venerdí e sabato più prossimi agli equinozii ed ai solstizii, per rendere forse benigna la natura in que’ critici momenti. Qualunque di questi dodici giorni si dice tempora: oggi è tempora, la quale voce deriva senza dubbio dalle parole quatuor tempora anni.

2 Avevate.

3 Non c’era altro.

4 Non sono.

5 Nel tegame, nella tegghia.

6 Neppure.

7 Se pure: quando anche.

8 Biagio.

9 Ad ogni modo.

10 Bisogna andare adagio.

11 In quell’altro mondo.

 

 






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