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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1028. Er prete ammalato

 

Dico: «Ch’edè,1 rregazze, che ccurrete2
cor piant’all’occhi e li capelli sparzi
pe la fanga de Roma a ppiedi scarzi
rescitanno er rosario?3 eh? ccos’avete?».

 

M’arisponne una: «Sta mmorenno un prete,
e nnoi pregam’Iddio; perché ppò ddarzi
ch’in grazzia de Maria lui s’arïarzi
san’e ssarvo: e pperò nnun me tienete4».

 

M’avessi5 detto un capo de famijja,
m’avessi detto er padre, er zu’ dolore
m’avería6 fatto dí7 ppovera fijja!

 

Ma ss’ha da piaggne8 perché un prete more?!
Pe mmé,9 ppozzi10 morí cchi sse ne pijja;11 e ssii fatta la gròlia12 der Ziggnore.

 

24 novembre 1833

 




1 Che è?

2 Correte.

3 Si vede in Roma quest’uso che riusciti inefficaci i soccorsi della medicina e principiandosi a curare un infermo con le divozioni, mandansi di notte delle donne scalze recitando il rosario della Vergine. S’intende già che questa modificazione di prefiche vende l’orazione ed il pianto.

4 Non mi trattenete.

5 Mi avesse detto.

6 Mi avrebbe.

7 Dire.

8 Da piangere.

9 In quanto al mio avviso.

10 Possa.

11 Chi se ne piglia: chi ne prenda pena.

12 Sia fatta la gloria, ecc.

 

 






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