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Giuseppe Gioachino Belli Lettere a Cencia IntraText CT - Lettura del testo |
Sig.a Vincenza Perozzi N.a M.sa Roberti
per Morrovalle
Giuntami appena l’ultima vostra, senza data, mi accingo a rispondervi soddisfacendo così alla espressa ingiunzione che me ne fate e nello stesso tempo compiacendo a me stesso con un atto di gratitudine alle vostre premure. È vero, io scrivo poco, anzi nulla, e forse ancora non iscriverei mai se non vi fossi stimolato. Lo vedo, lo so e lo confesso. Ma ne esistono bene i motivi. A tre voi li riducete:
e mi usate la gentilezza di voler credere l’avarizia dei miei caratteri proceder dal primo. Quì l’avete indovinata: ma metteteci ancora un po [sic] del secondo. Al terzo potete pur dare assoluta esclusione e in sua vece includeteci una certa mia macchinale e moral pigrizia a tutte le buone opere oltre quella di far da padre e da madre al mio povero Ciro. Questo uficio procuro di esercitarlo con tutta la diligenza che mi è possibile; ma poi?... poi mi cadon le braccia e resto in preda all’accidia: se non che presto risorgono cagioni da togliermi a quel brutto peccato, il quale insieme colla superbia dirige e mantiene gl’impulsi all’altalena de’ sette vizi capitali degli uomini. La superbia spinge la tavola di su, e l’accidia di giù. Gli altri cinque stanno in mezzo e se la godono in quel perpetuo movimento. Che se il posto centrale è quello d’onore, e l’onore appartiene al più degno, pare che l’ira dovrebbe avere in mano uno scettro e una corona sul capo. E vi dico il vero, carissima, amica: io riconosco in me una sovranità di questa ira perché vivo sempre arrabbiato. Dunque ricapitoliamo sul conto mio. Un po’ di superbiaccia, molta pigrizia, e moltissima ira contro tutti fuorché contro Ciro e i miei amici: notate bene. Le altre due coppie di vizi non istanno allegre per me. Questa non la chiamerete, spero, la confessione del fariseo, che si dichiarava l’uom senza taccia come il cavalier Baiardo di buona memoria. Tre miei difettucci bene o male ve gli ho confessati; e potrò così almeno attribuirmi un tantin di virtù di sincerità senza troppo temere il titolo d’impostore. In questo luogo possono cadere non affatto fuor di proposito alcuni versettucci che scrissi a Ciro per guida de’ suoi giudizi al prossimo suo ingresso nel mondo. Potrete anche dirli alla vostra figliuola, dacché non sono essi di que’versi che accendono il sangue:
La virtù, Ciro, ha una minor sorella,
Detta con greco nome ipocrisia
Che per aspetto e ugual fisionomia
Sua cadetta non par, ma sua gemella.
A le vesti, a la voce, e la favella
Fra lor t’inganni e non sai dir qual sia;
Tanto che s’una ti si mostri pria,
L’altra, venendo poi, ti sembra quella.
L’unico mezzo a non restar deluso
È il pensar che la prima è nota a pochi,
Però c’ama i silenzi e l’ombre e il chiuso
Dovunque in vece tu virtute invochi
La seconda vedrai, ch’ella ha per uso
Cercar la luce e i frequentati lochi.
Vi regolate bene circa alle letture di Matildina. Dov’è pericolo si salta, come fanno i preti alle lettere rosse. Salutatemela codesta signorina. Ciro studia ora il greco, e quì come nel resto mi va a dare il pagozzo. Godrei tanto da vecchio nel divenir suo scolare! E se non muoio prima accadrà. A primavera sarò in Roma sicuramente. Credo che partirò per Perugia il 17 di agosto. Dunque venite, e ci vedremo. Saluto Pirro di cuore e così tutta la vostra famiglia. Sono sinceramente.
Il vostro affezionatissimo amico e servitore
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