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Giuseppe Gioachino Belli
Lettere a Cencia

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Alla Nobile e gentil Donna

Sig.a Vincenza Perozzi, N.a M.sa Roberti

Macerata

per Morrovalle

Di Roma, primo febbraio 1840

G.[entilissima] A.[mica],

Col solito indugio di parecchi giorni mi è giunta ieri la vostra del 26 perduto gennaio, e per buona mia sorte mi ha essa trovato in circostanza di salute alquanto men triste che non accadde alla sua precedente: altrimenti restavan in purgatorio sì l’una che l’altra. Nella seconda voi accennate un timore di mia infermità: nella firma del 26 dicembre non faceste un sol cenno di simil suggetto, benché dalla mia del 12 (alla quale la vostra era responsiva) mi pare non ve ne venisse delineato un bel quadro. Lungi dal diminuirsi i miei dolori di capo sono andati a grado a grado aumentando; ed io dopo soddisfatto a tutti i miei giornalieri impegni di varia natura, non ho altra forze che di trascinarmi alla mia poltrona per rimanervi fino a che la voce del dovere non mi richiami a vita come la tromba del giudizio universale. Allora chi può pensare a lettere? Lo stesso mio figlio ne va spesso di mezzo. Adesso alle altre mie brighe si è aggiunto il segretariato dell’Accademia tiberina, al quale sono stato eletto dopo esser passato per la terna di presidente; e, come ciò non bastasse mi è stata raddossata la direzione del Tesoro della storia ecclesiastica, vastissima opera che quì si stampa in latino da due dottissimi Romani. Dunque il mio silenzio a tutt’altro va attribuito fuorché a pigrizia.

Ma poiché, siccome vi ho detto, oggi la mia cagna di testa latra un po’ meno, rispondo insieme e alla vostra 26 dicembre e all’altra 26 gennaio. Rattristandomi della morte del buon Solari rimasi pure soddisfattissimo all’udire come egli nel partirsi dal mondo pensasse lasciarvi bene agiate e la moglie e la nipote di quella le quali ebbero sempre per lui grande affetto e usarongli delicati riguardi. La virtuosa Ignazîna non meritava meno, in premio della sua eccellente condotta e de’ non pochi sacrificii a cui il suo flessi[bi]l carattere e l’amore della domestica pace per tanti anni la persuasero. Io me ne rallegro con lei, e con voi che ve l’avete a sorella.

Se è vero che nessuno dei sonetti della mia raccolta appartiene al numero di quelli de’ quali piacevi oggi suscitar memoria, avrete purtuttavia conosciuto che gli ultimi tre versi della Interna pace uscirono da quel vecchio fondo. Voi però non gitterete per questo il mio libro, quando pensiate che una solenne verità da me detta a Voi in altri tempi poteva convenire assai bene allo spirito del mio figliuolo, perché a lui è destinato quel breve moral concetto della pace dell’anima. Che se io non vi ho apposto, come in tanti altri l’indirizzo Al mio Ciro, proviene ciò dal non avere ancora mio figlio capacità di delitti per la sua tenera età, vaso purissimo d’innocenza. Così l’altro sonetto a carte 79 diverrà cosa sua il 12 aprile 1845, nel qual giorno ci diverrà maggiorenne. E quì ripeto: non gittate il mio libro. Bensì potreste ardere nel vostro camminetto, e alla presenza di chi vi ci tien compagnia, tutte quelle altre cartacce scritte si male in un tempo e sotto un influsso che vanno oggi onorati col fuoco.

Voi mi augurate buon capo d’anno e un seguito di altri 50. Troppi, cara mia, me ne bastano e avanzano soli altri dieci. Il 12 aprile 1845 è appunto nel centro di questi. Che desiderare di più?

Eccoci alla vostra lettera 26 gennaio e alle tre questioni da voi in quella promosse. Sotto quel nome di Sidèria potrebbe star velato un mio segreto; ma non v’è. Potrete quindi ritenere che in Sidèria si figuri ogni donna possibile, che lette le mie poesie, volesse giudicarmi uomo beato di soavi contentezze? Il nesso dello Sciscitor ve lo spiegherebbe facilmente il primo vocabolario latino che capitasse alle mani di qualunque membro della vostra conversazione. Pure ve lo farò dire dal vocabolario mio. Sciscitor significa chieggo per sapere, dimando con istanza. Sul più grave articolo poi de’ baffi e della pipa, di cui vi costituite avvocato posso rispondervi non aver mai voluto condannare le persone pel pelo e pel fumo, ma il fumo e il pelo per le persone. In Roma almeno accade così: i mustacchi, le barbette e i sigari rappresentano quanto di più imbecille e di scostumato è attualmente dagli ospedali e dalle leggi lasciato vivere per la città. Molti s’impelano e si affumicano per solo vezzo di imitazione; e per questi io certamente non sento peggio che pietà, vista la prova natura de’ lor modelli. Ma la massa è carne da frusta, e lode a chi avesse libero il braccio! Le mie satire stan tutte all’ombra, ne’ tirati della mia scrivania. Al solo vedere nella vostra lettera enunciato il vocabolo baffi io già prevedeva che sarebbe stato seguito dallo altro vocabolo ritratto. È vero, per un momento io assunsi mustacchi, e così a Milano mi ritrassero. Prima di tutto vi do carta bianca per giudicarmi caduto tra quello e questo tempo nel general vizio umano della contraddizione. Però, o cara amica, in 13 anni, quanti ne corsero dal 1827 a questo attuale anno di grazia, molte e molte cose di più ho viste ed apprese. Eppoi, non concedete voi nulla al querulo, inesorabile ed acre di Orazio ne’ poveri uomini che indurano il cuore invecchiando? Io invecchio. Avete torto di nominare individui in questa generale quistione di riprovazione e d’antipatia. Io non dirò mai: ogni baffo copre un labbro abbietto; ogni sigaro associa il puzzo del tabacco bruciato al fumo di un vano cervello. Se io non nomino alcuno, tacete anche voi, e non mi gettate alle prese con Pirro, che io amo stimo e rispetto. Del resto mettete poi baffi anche alla buona memoria di Gaspare, io vi rimarrò sempre indifferentissimo. Con Ciro forse non ci riuscireste, e se ci riusciste mi ferireste il cuore. Voi non conoscete la classe de’ barbuti romani.

Il mio ritratto peloso non merita di presiedere, come voi dite, alla società del vostro camminetto. Potrebbe invece servire a questo di alimento, ed ad accrescer fumo con quello de’ tizzoni e de’ sigari per profumare l’ambiente che voi respirate conversando, lavorando, e forse ridendo a ragione delle mie satirische follie, degne di un ispido vecchio e riottoso. Lo so in questa odierna mia opinione noi due non andiamo d’accordo. Voi amaste sempre il forte, il virile (o almeno ciò che ne avesse apparenza) anche nel vostro sesso, ed anche in voi stessa, benché andasse a scapito più delle molli attrative per le quali voi donne potete soltanto cattivare durevolmente i cuori degli uomini, e farvi gioia del creato. Su questo io vi scrissi a lungo allorché per giovanile fantasia mi chiedeste modula [sic] di una supplica con cui volevate celiando chiedere una nomina di carabiniere-a-cavallo al fu colonnello Liberati. Io nol giudicai bel vezzo in un’amabile signorina quale eravate. Né amo io gli uomini effeminati. Vorrei vedere più armi e men pelo, né un fuggir nelle botti con in capo un cappello avvilito da due svergognate parole. Non servirà che io le ricordi: il fumo de’ sigari non può averle assopite nella memoria italiana.

E Matilde neppur mi saluta? Giuoca sempre a tombola? Faremo i conti tutti insieme.

 

Il vostro Belli.

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