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Giuseppe Gioachino Belli
Lettere a Cencia

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Alla Nobile e Gentil Donna

Sig.a Vincenza Perozzi, N.a M.sa Roberti

Macerata

per Morrovalle

Di Roma, 13 agosto 1840

Mia gentilissima Amica,

Noi ci possiamo dire in bilancio riguardo a carteggio, poiché mentre stava correndo verso di voi la mia del 27 maggio Voi mi scrivevate la vostra del 29. Uno però di noi due deve muoversi: mi movo io, come anche è ben giusto in linea di civiltà. Voglio dirvi che dimani io parto per Gubbio e poi sarò a Perugia il 21. Ho veramente bisogno di un po’ di conforto perché sono ammazzato di fatica e di caldo.

Tutto ciò che potrei rispondervi relativamente alle vostre considerazioni sui baffi l’ho già detto nelle mie precedenti: aggiungo soltanto che se poi la futura sposa di Ciro, non contenta delle altre di lui compiacenze per lei, esigesse una prova di affetto in alquanti peli sul mento, mi guarderei dal contrariare fra loro questo lieve aumento di felicità. I casi però della vita insegnerebbero assai presto ad entrambi con quali occhi debbono due sposi imparare a guardarsi, e a distinguere il pregio delle varie scambievoli deferenze. Lasciamo intanto questo soggetto, non meritevole per verità di più diffusi discorsi. Quello che a me interessa di sapere è se voi e la mia Matildina siate in collera con me per la non fatta romanza che mi aveva essa richiesta. Ah, non sareste giuste conservando anche il minimo rancore per questa che vi piacesse chiamare mia scompiacenza. Se aveste mai qualche fiducia nella mia sincerità non è questo il motivo per ritogliermela. Io vi dissi il vero. Io non ho né la mente, né il tempo, né il consenso de’ professori onde pensare a versi, e molto meno del genere di quelli a cui son rivolti i desiderii della vostra cara figliuola. Se un giorno mi sarà concesso di potermi inspirare fra la pace e l’amicizia della famiglia vostra, tenterò di risuscitare qualche scintilla di un fuoco già vicinissimo a spegnersi sotto il gelo delle sventure e degli anni. Per ora chi altri più di voi vorrebbe essermi indulgente? In uno degli scorsi mesi, mentre il mal di capo mi dava alquanto tregua, non potei dispensarmi dallo scrivete quì in Roma un componimentuccio. Ma che? Vi consumai quindici giorni e venne fuori un diavolo zoppo e colle stampelle: stento di gotta e ghiaccio polare. Dunque o non siete in collera, o facciamo la pace. Iustitia et pax osculatae sunt.

Mi chiedete cosa io pensi di vostro cognato. Mi pare un eccellente e stimabil giovane, d’ingegno pronto e di interessanti maniere. Eccovi la impressione che ho conservata di lui, e mi lusingo di non essermi ingannato malgrado del poco tempo del nostro contatto. Ditemi or voi come sta vostro suocero, la cui salute mi giova credere ristabilita.

Debbo lasciarvi: mi chiamano il vetturino, il passaporto, la valigia, il curiale e mille altri cancherini inseparabili dallo stato d’un poveruomo che deve farsi tutto da sé. Mi ristora il pensiere di andare ad ascoltare i privati saggi che Ciro darà in filosofia e il pubblico esperimento di fisica e lingua greca. Ricordatemi a tutta la vostra famiglia, e specialmente a Pirro e alla graziosa polpettina di Matilduccia.

Sono di cuore

 

Il vostro affezionatissimo amico e servitore

G.G. Belli

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