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Giuseppe Gioachino Belli Lettere a Cencia IntraText CT - Lettura del testo |
Sig.a Vincenza Perozzi, N.a M.sa Roberti
per Morrovalle
N° 1° ed ultimo di questa natura.
Se la vecchiaia non mi avesse rinfrescato il sangue, dolcificati gli umori e abbassato il morbino, questa mia lettera vi giungerebbe abbastanza acidula perché stemprata nell’acqua e aggiuntovi un cucchiaio di zucchero potesse tenervi luogo di limonea. Gli anni però e le peripezie della vita ci riducono in un punto della età nostra ad un tal grado di mansuetudine e di floscia natura, che quelle esterne cause dalle quali saremmo stati in altra epoca accesi fino a gittar fumo dagli occhi e faville per le narici, valgono appena a riscaldarci la pelle come può farlo a mezzo dicembre la cenere tiepida di un braciere estinto dalla vigilia. — In questa benigna disposizione di temperamento mi trovò dunque il vostro rimprovero del 16 giugno corrente; né il vocabolo offesa, che vi campeggia fra non poche altre parole o frasi risentitelle e amarette, seppe portarmi la mosca al naso come la circostanza avrebbe voluto.
Ma lasciamo l’estrinseco ed entriamo nella sostanza di questa vostra gran collera, provocata da quella mia più grande bricconeria. Alla Signora Cini, amica nuova, non ho accordato su voi, amica di antica data, alcun grado di preferenza, perché niuna notizia le partecipai circa la mia nomina, né le inviai dietro veruna specie di lettera, o epistola, o dispaccio, o altro foglio di qualsivoglia natura. Questa notizia, concernente i miei vantaggi, gliel’ha data spontaneamente la sua famiglia; la famiglia, alla quale, composta di marito e figli, niuna fretta disdice, se non solo dopo quattro giorni di lontananza. Ma dopo appena 24 ore dà principio alla sua corrispondenza con una moglie e madre assente: sul qual punto (voi mi direte, e direte benissimo) non può cadere alcuna quistione, siccome non saprebbe esser soggetto di disputa il privilegio che godono i divisi parenti di scriversi scambievolmente ciò che lor va per la fantasia. Ho dunque ringraziato il Signore che per questa parte il mio peccato se n’è ito in vapore. Resta mo a diluirsi l’altra parte di accusa dell’aver taciuta, o, meglio, ritardata la notizia a voi; ma spero coll’aiuto di Dio di mandare a spasso anche questa mea maxima culpa.
Il 9 corrente giugno venne dalla Segreteria per gli affari di Stato interni alla Direzione Generale del Debito pubblico un dispaccio, nel quale, dopo molto preambolo circa al mal riuscito esperimento di questi impiegati che concorsero, al posto si diceva potersi far luogo alla nomina del Signor Giuseppe Gioachino Belli. Ma poiché il Signor Giuseppe Gioachino Belli non è ancora stato installato, e poiché non ha egli peranco toccato il suo stipendio, e poiché infine tuttociò andrà probabilmente ad accadere fra giorni; così il Signor Giuseppe Gioachino Belli, avvezzo dalla esperienza a non dir quattro se non l’ha nel sacco, aspettava l’avvenimento consumato, per dirvi poi subito e tutto in un colpo: sapete? sono capo di corrispondenza e godo mensili 40, ovvero 38, scomputata la quota del rilascio per la cassa giubilazioni. Intanto e finché non arrivasse quel santo giorno, che non è ancora arrivato, io teneva bell’e ammannita sul mio scrittoio domestico e sotto un bel peso di giallo-antico quella tal vostra lettera del 24 marzo, in cui mi dicevate: ditemi quando verrà il punto decisivo. Questo punto decisivo pareva, dai primi di marzo in poi, dovesse venire ad ogni momento; ma non veniva, e, dovendo pur venire, io aspettava, per rispondervi, il poteri dire è venuto. Al giorno in cui siamo il punto decisivo si può dir quasi arrivato, ma io non gli farò i miei complimenti fuorché quando udrò dirmi: Signor Belli, eccole il suo scrittoio, eccole i suoi commessi, eccole i suoi quattrini. Ciò dovrebbe accadere al primo luglio, e a quel tempo la Signoria vostra sarebbe stata la prima, e assai probabilmente anche l’unica, ad esserne da me informata fra quelli a cui non avrei potuto parteciparlo che per via della posta. Ma ella, signora fumantina di antica data, ha rotto l’incanto, e così prendasi oggi la notizia imperfetta e acerba qual’è.
Le gentilezze che mi dirige pel vostro mezzo la Matildina mi riescono assai care ed han sempre luogo, benché nel senso che voi attribuite a questa frase io confessi che non può mai piacermi attraversare le mire che sovr’essa ha la ottima zia. Ricambiate, di grazia, quelle gentilezze con altrettante belle e dolci parole.
Io non vi promisi la mia visita per tre anni continui, rimettendola sempre, come voi dite, all’anno venturo. Siamo esatti. Ve la promisi nel 1839 a Roma pel 1841, in cui Ciro doveva uscir di collegio. Dovete però ricordarvi qual circostanza mi obbligò l’anno scorso a tornar quì di volo. Quest’anno poi sarebbe impossibile che io ottenessi un permesso di assenza. Dove son dunque i tre anni? E qual colpa n’ho io in tuttociò?
Circa poi alla mia pigrizia in genere nello scrivere, convincetevi che io fatico dalla mattina alla sera, e debbo anche trascurare qualche affar di famiglia. E malgrado la stanchezza del giorno, rare sono le sere in cui non mi occupi a casa delle molte e complicate teorie sulle quali è basata la macchina del Debito-pubblico. Quest’altro travaglio teoretico lo faccio per addestrarmi alle cose di pratica onde sapere ove mi metter le mani. Dunque un po’ di pazienza anche voi. Oggi Ciro ha ottenuto alla Università il baccellierato in diritto civile, canonico e criminale. Ecco il primo passo per l’avvocatura.
Mille abbracci a Pirro, un bacio sulla mano alla eccellente Ignazîna, molti saluti a mammà ecc. ecc. ecc.
Il vostro affezionatissimo amico e servitore
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