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Giuseppe Gioachino Belli
Lettere a Cencia

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Alla Nobile e Gentil Donna

Signora Vincenza Perozzi Nata Marchesa Roberti

Macerata

per Morrovalle

Di Roma 9 marzo 1843

G.[entilissima] A.[mica],

Alla vostra lettera del 26 febbraio rispondo assai prima che nella attual mia posizione, ed anche nella inerzia che ne consegue, io non soglia fare circa ad epistolare corrispondenza. Ricevetelo come un miracolo d’amicizia: miracolo veramente che non risanastorpiiferiti, ma pur tale, se vogliam considerarlo dal senso più ovvio, cioè mirabile avvenimento.

La mia salute, che per vostra bontà è l’articolo principale da cui principiate a parlarmi, si mantiene fragiletta in sulla indole delle umane speranze, ovvero tanto solida quanto i castelli in aria, che la nostra cara Matildina deve saper chiamare anche altrimenti, cioè Chateaux en Espagne. Ci ho indovinato? Or bene questi castelli spagnuoli non sorgono oggi mai più nel mio cervello, ma van mettendo piede ne’ solidi e ne’ liquidi dalla mia materiale esistenza. E di ciò basti.

Il vostro solito computo de’ 44 anni l’ho già altre volte chiamato una sgradevole ubbìa, e non amo più udirmelo intonare come un salmo malauguroso. Non sonate, per carità, questa campanellaccia a tre tocchi per ogni minuto secondo. Mi è già sì molesto il campanone di Montecitorio che ogni mattina mi chiama a ravvoltolarmi fra le aride stoppie de’ consolidati e degli altri pubblici debiti, che il doppietto della vostra campanella da cimiterio mi cimenta quel po’ di tranquillità che mi può esser rimasta. E basti anche di ciò.

La Signora Rita la ho veduta un momento nella passata domenica: vostro cognato l’ho incontrato jeri per via, mentre verso la sera me ne tornava a casa per mangiar la minestra e, ci s’intende, qualche altra cosa. Posso però dire che, non ho ancora parlato né colla moglie né col marito.

Dunque, giacché alla Matildina non dispiacque lo schiaffetto, sia questa volta una tiratina d’orecchio, in pena d’aver detto che io mal valuti i di lei graziosi sentimenti per un vecchio amico della famiglia, qual mi son io. E questa sullodata tiratina d’orecchio equivalga alle seguenti parole che la mia voce non può farlevi giungere fino di quà: stammi bene, la mia amabile amichetta, e ricordati del povero impiegato del debito pubblico, al quale è negato il venirti a trovare.

E così è in verità. Che mi parlate voi di settembre e di miei viaggi in settembre?! Tutti i mesi sono eguali dentro quella famosa porta del sempre e del mai; e voi cocciutaccia non la volete capire. Vi batterei la testa contro una muraglia di rose d’ogni mese! — Ma insomma bisognerà pure accomodarla in qualche maniera. Se nulla nel frattempo non vi si oppone (attenti bene a queste premesse) nel futuro settembre vi manderò Ciro, e farà egli la visita e per sé e per me. Non dubitate: è savio, rispettoso e modesto: giuratene sulla mia parola. Ha più virtù di me, che già si fa presto a passarmi. Egli va assai di rado in casa Cini, benché io abbia piacere ch’egli ci vada. Ma le sue occupazioni poco tempo gli lasciano. Quando ci va non vede quasi mai la Signorina Clelia, che poco esce dalle sue stanze; e se rarissimamente fra loro si vedono, non si dicono quasi mai una parola. Timori panici son dunque i vostri e assolutamente privi di fondamento. Eppoi assicuratevi che tutt’altre sarebbero le idee della buona famiglia Cini, e tutt’altre le mie. Quella ragazza merita meglio. Però merita meglio anche M... Il Signor Ferrieri è fuori di Roma. Più volte l’ho io pregato pel vostro affare, o, che è lo stesso, per l’affare di Pirro. Appena sarà tornato (che io non so dove sia né quando ritorni) troverà un mio biglietto di ricordo sul suo tavolino. Ma! adesso il Cardinal Tosti va viaggiando per due mesi, e se pria di partire non lasciò gli ordini firmati, a rivederci a quando li firmerà! Salutatemi tutti al solito, capo per capo, e credetemi secondo il consueto

 

Il vostro affezionatissimo amico e servitore

G.G. Belli

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