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Giuseppe Gioachino Belli
Lettere a Cencia

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Alla Nobile e gentil Donna

Signora Vincenza Perozzi Nata Marchesa Roberti

Macerata

per Morrovalle

Di Roma, lunedì 10 aprile 1843

G.[entilissima] A.[mica],

Il sistema di vigilanza che nella cara vostra 21 marzo mi dite esser da voi tenuto per riguardo alla Matildina, fa onore a voi, vantaggio a lei, e piacere a chiunque (capace esso medesimo di virtù) vi riconoscadelicata e gelosa in un punto di tanta importanza pel decoro e per la pace della famiglia. Mi sento anzi così penetrato di rispetto verso la nobiltà e la giustizia delle vostre massime in simil proposito, che se, a malgrado della fiducia che potesse meritare al mio Ciro la sua onesta condotta, inclinaste ad escluderlo dalla generalità de’ principii di una saviissima cautela, non solamente non ve ne ringrazierei, ma sarei tentato a indirizzarvene qualche lagnanza partendo dalla regola che una confidenza anche la più ben collocata può farsi cagione di non lieti successi, e allora in ispecie quando la stessa innocenza ed ingenuità di due giovani cuori li faccia ritrovar disarmati contro le ostilità di una passione che arriva quasi sempre di fianco, alla sordina e senza ambasciata. Voi dovete perciò sempre osservare i nostri due ragazzi, nello scopo ancora della loro felicità, se saranno essi destinati a rallegrar colla loro unione la nostra vecchiezza. Nulladimeno non è necessario alla vostra perspicacia che io vi faccia avvertire come la stessa prudenza, consigliatrice di vigilanza, suggerisca altronde il precetto che la vigilanza medesima assuma un carattere di franchezza e disinvoltura, poiché se mai si presentasse inopportuna e importuna sotto l’aspetto di diffidenza ed inquisizione, potrebbe da un eccesso di cure snaturarsi il buon frutto che si coltivi, inducendo nelle svegliatissime teste giovanili la curiosità di penetrare il perché di una indagine suppositoria, la quale in tal caso non derivando da alcun male preesistente, diverrebbe per avventura origine ella stessa o di male più artificiosamente commesso, dove le occasioni lo secondassero, o vagheggiato almeno qualora le circostanze nol favorissero: sempre pessimi effetti della diffidenza reciproca che fosse entrata di mezzo fra l’osservato e l’osservatore. Conchiudendo però questo noioso mio squarcio di morale educazione, mi confesso persuasissimo che voi, così sagace ed illuminata, converrete con me nel ritenere che la miglior vigilanza e la più proficua sia quella che senza rallentar mai della sua intensità, e senza mai interrompere la continuità sua, simigli piuttosto un blocco che non un assedio. Sono anzi convinto che questo e non altro sia il metodo che si segua tanto da voi quanto dal buon Pirro, che pregovi salutarmi.

Rettissimo, e ricco assai di giudizio, io stimo il discernimento di Matildina nel regolarsi ne’ diversi incontri de’ suoi contatti sociali, e solidissimi i di lei criterii nel formarsi concetto degli uomini coi quali le civili convenienze la espongono ad incontrarsi. Quanto mi narrate su questo proposito onorerebbe anche una donna munita de’ più validi soccorsi della esperienza. Tanto più vedrei quindi con soddisfazione combinarsi un nodo che supera anche i limiti di quanto mi fosse lecito desiderare. Ciro però ha molto meno di quello che potrà un giorno possedere Matilde. Forse però non istarà colle mani alla cintola e sarà capace di guadagnare per dar ristoro al suo patrimonio. Per le qualità esterne voi dite che (a quanto sapete) non è niente brutto. Non mi negherete peraltro che debbo saperne qualche cosa ancor io; e quindi vi posso rispondere che non è niente bello. A me è geniale perché gli son padre, ed ogni scimia accarezza il proprio scimiotto. Per saviezza altronde, dolcezza, gravità non pedantesca, e onestà, quì gli fo sicurtà io. Eppure fra le vaghezze che avrebbe a’ miei occhi questa architettata alleanza, avvi la sua spinetta che mi punge il cuore. La vostra famiglia pare che per varie ragioni non abbandonerebbe codesti luoghi: io non potrei muovermi di quì, dove mi incatena non la inclinazione ma il dovere e la necessità. Chi di noi dunque dovrebbe togliersi dal fianco ciò che più ama? Ah! già lo prevedo: toccherebbe al povero vecchio di Belli! Dovrei forse restar solo quando più sentissi il bisogno di compagnia. In quanto a Ciro il vivere in provincia e presso i campi sarebbe la sua delizia. Né io provo inclinazioni diverse: Roma mi annoia. Ma come vivrei abbandonando l’impiego? Per ottener giubilazione mi mancherebbe il tempo dell’esercitato servizio, poiché i sedici anni della trascorsa quiescenza non potrebbero a senso di legge essermi valutati. Pria di 20 anni non interrotti di servizio non si ottiene alcuna giubilazione: dopo i 20 si ha la metà del soldo: dopo i 25 i due terzi: dopo i 30 i 3/4: dopo i 35 i 4/5: dopo i 40 l’intiero: sempre però col concorso della fisica impotenza, da certificarsi legalmente per via di governo. Vedete che tibi egli è questo? Bisogna crepar qui.

Sin dal giorno di questo mese ho consegnato al Signor Cavaliere Vincenzo Colonna le 82 pietruzze de’ Signori Lazzarini. Sul premio della piantagione, io non posso dirvi né dove né come trovisi la faccenda. Ho nuovamente cercato del Signor Ferrieri, e mi si è detto trovarsi egli tuttora assente, anzi a Pesaro e per affari. Né san dirmi se tornerà presto. Potreste fargli dare la caccia se ripassi da codeste parti. Ciro vi reverisce. Egli dopo dimani (12) compie il 19° anno ed entra nel 20° della età sua.

Salutatemi Pirro, Matilde, la Marchesa, Checco ecc.

 

Sono il vostro amico Belli

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