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Giuseppe Gioachino Belli
Lettere a Cencia

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Alla Nobile e Gentil Donna

Signora Vincenza Perozzi Nata Marchesa Roberti

Macerata

per Morrovalle

Di Roma, 2 gennaio 1845

G.[entilissima] A.[mica],

Non vi rammaricate né vi offendete se così raramente io vi scrivo. Circa all’offendervene avreste forse anche ragione, ma in ciò io mi appello più alla vostra indulgenza che alla vostra giustizia, assicurandovi che da quando son caduto nell’afflizione del mio abbattimento cerebrale, il dispormi colla mente e colla mano alla penna mi costa uno sforzo indicibile. Né con voi sola osservo questo sistema di taciturnità, ma con tutti que’ pochi ai quali io soleva una volta indirizzare il discorso mercè l’epistolare commercio. Posso dire, metà con vergogna, metà con dolore, che niuno vede più i miei caratteri se prima non li abbia provocati; e quel prima talvolta ben molto discosto dal poi. Deve ognun ormai persuadersi a riguardarmi uom nullo. Tale è il mio stato che sin dal 6 di novembre ho per impulso di medici dovuto ritirarmi dall’impiego e da qualunque genere di occupazione mentale. Passo ora le mie giornate nella beatitudine nell’ozio e dell’isolamento, che l’è un bel conforto da spiritare anche i cani, e farebbemi cacciar giù filatesse di bestemmie, se le bestemmie non fosser peccati. Pure dal 4 dicembre impoi non posso dirmi assolutamente solo, poiché mi fa compagnia una cara e fedele damina, che chiamasi tosse, che tratto-tratto vien anche meco a giacersi; e allora siamo in tre: essa, io, e un certo Signor Reuma-di-petto, il più giovialaccio compagnone del mondo. Oggi, per esempio, vi scrivo da canto al letto, donde escii ieri, per forse tornarvi dimani. E così tocca via la viola, e ringraziamo iddio di non essere ancora crepati, cosa che l’un o l’altro dovrà pure succedere.

Io giunsi a Roma in ottobre, perché ottenni un’altra buona fetta di tempo da spendere in giri; e in ciò fu più umana Monna Direzione del Debito pubblico che non Monna testa privata del Signor Belli; perché quella mi lasciava lente le briglie mentre quest’altra le raccoglieva per ristringermi il morso. E Sissignora. Do oggi in baie per tenere addietro quella tal filatessa. Può aver ragione il Signor Cantù: posso averla io. L’uno e lo altro non mancheremmo di curiali. Egli conta così, perché parecchi si son figurati che il primo anno sia zero, dicendo non potersi contare uno sia che le parti di quell’uno non sian tutte complete. E nell’uno dunque dovrà principiarsi a contare il due: cosa che mi pare un imbroglio; ma pure que’ parecchi la intendon così.

Non si dice né le bon, né la bonnannée. No le bon perché année è femminile; no la bonn perché questa parola non si tronca neppure innanzi la vocale, né perciò soffre l’apostrofe. Si dice dunque: Madame, je vous souhaite la bonne année.

Tuttociò in riscontro alla vostra del 25 dicembre ultimo, aggiungendovi che Ciro sta bene ed atende con alacrità al suo ed ultimo anno di leggi, per prendere in luglio la laurea. Egli con me vi dice Madame, je vous souhaite la bonne année, come voi la desideraste a noi; e noi poi, e specialmente io, facciamo altrettanto con Matildina, ed entrambi con Pirro, colla Marchesa e con Checco e con tutti.

Ed eccovi una lettera più lunga d’una portonata, o d’un giro-di-mura.

Sono con sincerità.

 

Il vostro affezionatissimo amico e servitore

G.G. Belli.

* * *




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