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Giuseppe Gioachino Belli Lettere a Cencia IntraText CT - Lettura del testo |
Sig.a Vincenza Perozzi, N.a M.sa Roberti
per Morrovalle
Sembrerà che tardi risponda alla vostra del 27 febbraio, e non vorrei figurare tiepido e lento nell’unire il mio al vostro dolore per la perdita di un uomo che amai e che eravi giustamente sì caro. Ma il vostro foglio mi arrivò ieri verso la notte. Mi colpì quella notizia, e giunse a turbarmi il riposo, avendo io le fibre già disposte alla commozione per causa di una penosa malattia di reuma che da molti giorni mi travaglia stranamente. Povero Checco! Mi affligge la sua fine come quella di una persona che mi appartenesse. Ed avete ragione: la sua vita che era oggimai? Un continuo tormento. Eppure, la morte non è il rimedio che noi cerchiamo ai patimenti di chi ci occupa il cuore. Quando questa arriva, benché prevenuta, quantunque in apparenza benefica, non cessa di comparirci in tutta l’orridezza della sua natura, e pare che ci abbia reciso un fiore quando ci porta via una pianta già quasi putrida o polverosa. Ah! lasciare o esser lasciati: ecco la sorte degli uomini. Ma il colmo della sventura è il restar solo sulla terra. Allora si invidia chi ci precedette, né il morto è il più disgraziato. Sono stato al punto di fare il terribile sperimento! Dio però nol volle; ché se lo avesse permesso, oggi non sarei più in grado di scrivervi e di rammaricarmi con voi. Salutatemi Pirro e Matilde.
Della Chichi nulla posso dirvi, e chi sa quando lo potrò con questi nostri belli tempi e con questa mia bella salute! Già, chi vedo più io? La mia stanza e i quadretti che vi stanno appesi d’attorno.
Mi gira il capo, e mi sforza a finire.
Sono sinceramente
Il vostro affezionatissimo servitore ed amico
P.S. — Ciro sta come un leone, e vi saluta.
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