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Giuseppe Gioachino Belli Lettere a Cencia IntraText CT - Lettura del testo |
S.a Vincenza Perozzi N.a M.sa Roberti
Per Morrovalle
Son vivo: per ora son vivo, ma infermiccio e oppresso da travagli e cure. Si dice che i disordinati muoiono di cholera. Benché ho veduto attorno a me moltissime eccezzioni [sic] a questo canone, ad ogni modo lo stato del mio spirito equivale a un disordine. La morte della povera Mariuccia, le circostanze che rispetto a me l’accompagnarono, il nuovo peso cadutomi sul capo d’improvviso, le necessità infinite e gravi di essenziali, urgenti cambiamenti nel mio personale e nelle cose domestiche, non potevano esser peggio associate che ad un contagio distruttore e quasi paralizzatore della umana società. Quì tutto crolla, e quel che non crolla trema. Una generale insocialità rimove l’uomo dall’uomo; e il danno reale di moltissimi dà pretesto ai rimanenti per coprirsi del manto rispettabile della sventura. Dovunque sbarre, cancelli, profumi infernali che danno apoplessia o asfissia per cambio di cholera. Una solitudine, una mestizia, uno squallore, per tutte le vie, per tutte le case, in tutte le facce.
Non t’imbatti in due individui che non ti lascino nelle orecchie in passando qualche parola di sventura o di morte. Io sono solo in casa come il tempo che mi trascina. Eppure debbo star qui a Roma e avvoltolarmi fra carte, fra creditori, fra debitori, fra curiali; e cercarli se non li trovo. Una sola di queste classi di genti viene a cercar me e mi trova, e se non muoio mi troverà sempre.
La mia salute insomma è assai trista. Sono tornato alle vecchie infiammazioni, e ci si aggiungono frequenti accessi di furore, e, diciamolo pure perché è vero, di quasi aberrazione di mente. In alcuni giorni temo d’impazzire; e chi sa?...
Io vi ringrazio, ringrazio il buon Pirro, la Matildina, e tutti, delle vostre amorevolezze. Non vi date pena. Forse la falce rispetterà la felce. Ebbene? Tanti condannati vogliono il lor bicchiere di vino prima della corda che li strangoli. Io dico un calembourg [sic]. Che male c’è?
Oh, ecco una lettera troppo lunga per le mie forze abbattute e pel mio povero tempo. Vi assicuro che non ve ne scriverò più così presto, perché anche volendo e potendo, ché pure vorrei ma non posso, corro rischio di scordarmene. Ditemi una requiem aeternam, che non si sprecherà mai. Sarà per quando sarà: nunc pro tunc, come dicono i buoni curiali. Anzi, fatemi il piacere, non mi scrivete neppur voi. A cose fatte chi resta raccoglie le bucce. Non so, mi chiamerete ingrato, ma se volete da me lettere frequenti potete vedere anche una promessa delusa. Ci cercheremo passato l’uragano.
I Cristofori gli ho incontrati recentemente. Pure, siccome adesso chi sente battere un’ora non è sicuro di udir l’altra seguente, manderò ad informarmi di loro, e in vostro nome. Se la risposta arriva prima che parta il corriere ve la metto qui abbasso.
Siamo tutti imbussolati: si aspetta di momento in momento a chi tocca il numero. Bei tempi! Bella vita! Bel mondo! Iddio scampi voi altri. Ecco i miei voti.
Ciro sta bene, è buono, costumato, gentile, ingenuo, studia e prende premi. Ne ha il 5 corrente avuto un primo in letteratura: un secondo in geometria gli è stato negato dal bussolo. Prega per la madre e per me. Io sono l’unico suo sostegno, com’egli l’unico mio legame alla vita. Dunque la desidero sino a che sia ora di spogliarmi della mia tutela. Sono il vostro affezionatissimo amico
P.S. — Sono andato io medesimo a informarmi dai Cristofori. Ho parlato col signor Luigi. Stanno entrambi in ottima salute fino ad oggi, e ringraziano.
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