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Giuseppe Gioachino Belli Lettere a Cencia IntraText CT - Lettura del testo |
Alla Nobile e gentil Donna
Sig.a Vincenza Perozzi, N.a M.sa Roberti
Macerata
per Morrovalle
Di Roma, 8 dicembre 1840
Gentilissima Amica
Alla seconda lettera che mi dirigeste a Perugia (parlo di quella dell’11 settembre) io risposi di là il giorno 19 del medesimo mese partecipandovi la mia non lontana partenza da quella città per tornarmene bel bello a tirare il vomere in questo mio campo aratorio. Fin là dunque le nostre partite sono saldate. All’avvicinarsi però delle feste natalizie e del nuovo anno preparo questa carta per aprirvi un conto novello, nel quale io registro intanto a mio credito una bella somma di augurii anticipati, che potranno figurare come arra e caparra del mio debito d’amicizia verso di Voi, di Pirro, di Matildina, della Marchesa, dello zio Checco e di tutti i parenti, agnati, cognati, consanguinei, affini, sino alla decima generazione.
Fra i nomi de’ soprannotati miei creditori, notati tutti in rubricella del libro mastro, ne avrete trovato uno scritto in carattere più cancelleresco che gli altri. Ciò indica, secondo il sistema della mia contabilità, che su quel nome ha da cadere scrittura doppia. Animo dunque. Come sta Matildina? Ama il suo soggiorno claustrale? Vi resta non oltre al tempo carnevalesco? Ve la lasciate di più? Tante interrogazioni puzzano un po [sic] di curiosità de’ fatti altrui; ma io tengo sott’occhio la vostra lettera dell’ 11 settembre, e vi trovo scritte queste parole: in seguito saprò dirvi qualche cosa di più positivo su questo punto. Voi dunque autorizzaste la mia ficcanaseria: voi pagatene oggi la pena, e parlate.
Andiamo adesso al conto di Ciro. Esso gode sempre di robustissima salute; e non so se vi abbia mai detto che su questo proposito della sua fibra tenace lo chiamano il beduino, al che forse ancora contribuisce la fosca tinta della sua pelle. Non ha sortito certamente dalla natura le doti da venirne un vagheggino e un fustarello di latte e miele, di giglio e rosa. Quello va innanzi per la sua via come un corazziere della guardia del corpo, fermo di mente e duro di membra. Negli scorsi giorni gli ho mandato i partimenti di Fenaroli perché si addestri nel musicale accompagnamento. È un pezzo, mia cara Signora dacché nelle vostre lettere non è più parola della vostra salute. Intendo pertanto oggi di diffidarvi formalmente, chiedendovi con positive e chiare parole un ragguaglietto preciso del vostro stato sanitario, del quale tanto più m’interesso in quanto che in Roma avevate certe ubbie pel capo, dalle quali al certo non poteva derivarvi il beneficio dell’elixire campacentanni. È vero che parlavate di un tale anno climaterico con assai sangue freddo; ma simili idee, amica mia, non sono fiori di malva. — La mia capoccia va meglio, e n’è uscita fuori una romanzaccia, degna della musica de’ gatti incimurriti.
La Carità (vedi che titoli!)
Ah non vantate o prodighi
Di sterili parole,
Quell’apparir benefici
Dove più splenda il sole;
Non il gettar per gloria
Di ree lusinghe e vane
Un vile argento, un pane
Sul letto del dolor.
La carità, che ingenua
Abita in cor non guasto,
Abborre dagli strepiti,
Sdegna le pompe e il fasto;
E pari a casta vergine
Al guardo altrui si cela,
Né in sua bellezza anela
A effimero splendor.
Ah di fortuna il giubilo
E il superbir del sangue
Al muto aspetto estinguasi
D’un poverel che langue:
Felici se una lagrima
Vi turba il cuore in festa,
E il senso in voi ridesta
Dell’egra umanità.
Allora, allor de’ miseri
Nel consolato petto
Susciterete un palpito
Di non mentito affetto;
E quanto men fra gli uomini
Scenda orgogliosa e grave
Sarà più a Dio soave
La Vostra carità.
Vi parrà questa romanza stravagante e bizzarra. E così è. Ma se togliete dalla mente de’ poeti la stravaganza e la bizzarria, non vi resta più altro. In questa romanza, per difenderla pure un tantino, non vi sono sfoghi d’amore né altri vaniloquii di un’anima che non intenda se stessa. Io, al postutto, non so se la carità possa associarsi alla musica, e se i maestri di cappella avranno note caritatevoli da farne una salsa alla mia scipita vivanda.
E quì vi auguro di cuore pace, sanità e alegrezza come i ciechi rapsodisti di piazza.
Sono il vostro aff[ezionatissi]mo a[mi]co
G.G. Belli
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