È noto come uno dei primi nomi
con cui è stata designata la vita religiosa è “vita evangelica”. È nata dal
Vangelo, dal desiderio di vivere con radicalità gli insegnamenti di Gesù, di
condividere appieno la sua stessa vita in comunione di ideali e di destino.
Possiamo, ancora una volta,
lasciare che i nostri Padri ci raccontino la loro esperienza al riguardo?
Il primo è certamente Antonio del
deserto, padre del monachesimo. La sua storia, e con essa la storia di ogni
successiva espressione di vita religiosa, quindi anche la nostra storia, inizia
quando un giorno, in chiesa, ascolta la parola di Cristo: «Se vuoi essere
perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel
cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). L’avventura di Antonio il Grande
inizia con l’obbedienza alle Scritture, come dirà espressamente in una delle
sue lettere, parlando dei monaci: «Quando la parola di Dio li raggiunse, non
ebbero la minima esitazione, ma la seguirono prontamente» (Lett 1,1). È
la parola di Dio che motiva la sua scelta. Le prime pagine della Vita
Antonii continuano ad attestare la centralità della Parola nell’itinerario
spirituale: «stando attento alla lettura ne custodiva in sé il frutto copioso»
(1,3); «stava così attento alla lettura delle Scritture, che nulla di quanto vi
è scritto ricadeva sterile in terra della sua mente» (3,7). San Girolamo dirà
che Antonio «con la lettura assidua e lunga meditazione aveva fatto del suo
cuore la biblioteca di Cristo» (Ep 60,10).
La Bibbia è, a tutti gli effetti,
il libro del monaco; e questo anche materialmente. Secondo Evagrio Pontico il
monaco poteva possedere solo «la cella, il mantello, la tunica e il
Vangelo»1.
Le prime Regole sono semplici
norme pratiche, senza alcuna pretesa di contenuti spirituali. La sola Regola
del monaco, come per ogni cristiano, è semplicemente la Scrittura. «Sono le
Scritture – scriveva Orsiesi, discepolo e successore di Pacomio – che ci
guidano alla vita eterna e il nostro padre [Pacomio] ce le ha consegnate e ci
ha ordinato di meditarle continuamente (...)» (Libro, 51). Anche per Basilio unica Regola è la Scrittura. Non ha
mai chiamato Regola, quella che fino ad oggi è ritenuta tale.
Il suo punto di riferimento sono piuttosto un suo altro libro, i Moralia, che consiste semplicemente in
una raccolta di testi biblici ordinati per temi: circa 1500 versetti del Nuovo
Testamento. Ecco la sua vera regola: la Parola di Dio!
Anche in seguito gli iniziatori
delle diverse famiglie religiose continueranno ad essere animati da un unico
anelito: vivere il Vangelo.
Tutta la Regola di Benedetto è
posta all’insegna dell’ascolto della Parola di Dio: «Ascolta, figlio…» (RB Prologo
1); «Ascoltiamo la voce di Dio che ogni giorno si rivolge a noi…» (RB Prologo
9); «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa
voce del Signore che ci chiama?» (RB Prologo 19). Si tratta di diventare
discepoli della Parola, di ascoltarla, di accoglierla, di metterla in pratica:
«Il Signore aspetta che noi ogni giorno rispondiamo con i fatti ai suoi santi
ammonimenti» (RB Prologo 35). Benedetto stima la sua Regola come una semplice
iniziazione per i principianti, per il resto rimanda alla Scrittura quale
«norma rettissima per la vita dell’uomo» (RB
73,2-5).
Nella Regola attribuita a san
Bruno troviamo scritto: «Il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, interpretato
dai dottori della Chiesa cattolica, servirà da regola a tutti i
Certosini»2. Anche per Francesco d’Assisi la Regola è «la vita del
vangelo di Gesù Cristo» (Regola non
bollata, Titolo: FF 2,2). La Regola bollata inizia con lo stesso
tenore: «La Regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo
vangelo del Signore nostro Gesù Cristo... » (I, 2: FF 75), avendogli
l’Altissimo rivelato che avrebbe dovuto vivere «sotto la forma del santo
vangelo» (Testamento, 17: FF 116).
Ma veniamo agli ultimi secoli,
visto che la maggior parte di noi appartengono a congregazioni religiose. Ci
introduciamo in un terreno minato. È noto infatti che alla fine del medioevo si
è operato un progressivo distanziamento tra la vita spirituale e la Parola di
Dio, fino a parlare di “divorzio”3. «Con l’emergere della teologia
sistematica all’epoca scolastica e poi con l’emanciparsi di una esegesi critica
come scienza autonoma, l’unità di queste discipline si rompe, fino a radicalizzarsi
con l’avvento dell’epoca moderna. Con il Rinascimento e l’Umanesimo infatti,
l’esegesi si stacca dalla teologia, la teologia si stacca dall’esegesi, la
spiritualità è staccata dalla dogmatica e dall’esegesi, la predicazione ignora
spesso l’esegesi e la dogmatica, divenendo moralizzante; si arriva cioè ad una
progressiva separazione e rottura delle discipline teologiche (...)»4.
Per gli ultimi secoli si è potuto
parlare, almeno per la Chiesa cattolica, di “esilio” della Parola di Dio, soprattutto
tra i laici ai quali l’accesso alla Sacra Scrittura era di molto limitato,
quando non era addirittura precluso. È un giudizio severo, condiviso da molti
autori, tra cui H. de Lubac, H. Urs von Balthasar, S. Marsili, B. Calati, E.
Bianchi.
Anche i fondatori e le fondatrici
di questo periodo, hanno abbandonato la Scrittura? Oppure, con la tradizione
monastica e mendicante, hanno continuato a cercare in essa la sorgente e
l’alimento costante della loro ispirazione e della loro opera?
Certi giudizi sommari, se pur
indicano delle tendenze comuni, vanno presi con beneficio d’inventario. E in
questo caso l’inventario è ricco di testimonianze positive. Mentre alcuni
teologi come Melchior Cano asserivano che le donne non avrebbero dovuto mai
prendere in mano la Bibbia perché per esse la Scrittura è un cibo pericoloso,
Teresa d’Avila attingeva abbondantemente alla fonte della Parola di Dio,
convinta che «tutto il danno che si trova nel mondo dipende dal non conoscere
la verità della Scrittura con chiara verità» (Vita 40,1). Mentre da un
lato la Parola di Dio va in “esilio”, lasciando tanta parte del popolo di Dio,
dall’altra trova piena accoglienza e pone la sua dimora in uomini come Ignazio
di Loyola (1500), Francesco di Sales (1600), Alfonso de Liguori (1700). Anche
in questi secoli nei quali la Parola di Dio sembra sia stata oscurata essa ha
continuato ad essere sorgente di sempre nuove forme di vita evangelica. P. Barré, fondatore delle Suore del Bambino
Gesù, nel 1600 poteva scrivere: «La mia vita è tutta Vangelo vissuto».
Cosa dire poi dell’Ottocento, il
periodo più fecondo di congregazioni? Il mio desiderio sarebbe quello di
coinvolgere tutti voi nella condivisione dei doni di cui siamo eredi e custodi.
Potrò sperare di ricevere ciò che hanno detto e scritto i vostri fondatori e
fondatrici sull’ispirazione evangelica della loro fondazione? Mi limito ad
alcuni esempi significativi.
Pier Giuliano Eymard,
fondatore di una congregazione maschile e di una femminile, ancora da semplice
sacerdote, afferma: «Un prete che passa un giorno senza leggere la Scrittura ha
perso la sua giornata». Lui non perdeva la sua giornata. Al termine di
un’esperienza particolare vissuta il 25 maggio 1845, aveva infatti scritto: «Ho
domandato a Nostro Signore lo spirito delle Lettere di S. Paolo, questo grande
amante di Gesù Cristo. Da oggi inizierò a leggerle, almeno due capitoli al
giorno». Quando fonda la congregazione del SS. Sacramento, mantiene questa
attenzione per la Scrittura, tanto che nelle Costituzioni porrà come dovere del
religioso leggerla e meditarla; quelli impegnati nella predicazione dovranno
nutrirsene, esserne “pieni”; quelli che svolgono il ministero della confessione
dovranno prepararsi con “frasi della Sacra Scrittura”. Ma è soprattutto la sua
esperienza personale che fa testo. Il 24 febbraio del 1865, durante il Ritiro
di Roma, Eymard si appunta questa meditazione: «Gesù è la parola del Padre, il
“Verbo del Padre”. Egli ripete la parola divina con rispetto: essa è divina,
essa è santa. La ripete con amore: essa è una grazia, “sono spirito e vita”. La
ripete con efficacia - perché essa deve santificare il mondo, ricrearlo alla
luce della verità, riscaldarlo con il fuoco dell’amore, e un giorno giudicarlo,
“Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il
cammino?”. La parola di Gesù Cristo è “spirito e vita”, è onnipotente, “se le
mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” – “egli
parla e tutto è fatto” - Le parole di Gesù Cristo sono i raggi di questo sole
di verità “io sono la luce del mondo” - esse sono la luce in mezzo alle
tenebre». Da questa riflessione, trae una conclusione interessantissima: «Ora
io devo essere per i miei confratelli e per il prossimo la “parola di Cristo”».
E qui Eymard si rivela per quello che è autenticamente, un fondatore, ossia la
“parola di Cristo” fatta vita.
«Oh
Gesù - prega durante un ritiro alle Ancelle del SS. Sacramento -, sii la mia
luce, la mia nube del deserto, mio unico Maestro. Non desidero altro! Sii la
mia unica scienza; al di fuori di te, tutto è niente per me. Parlami come ai
discepoli di Emmaus: che il mio cuore si infiammi ascoltandoti».
L’ispirazione missionaria di Antonio
Maria Claret, fondatore di più Istituti, è radicata in un’esperienza della
Parola di Dio che potremmo definire mistica. «Le vite dei santi che ogni giorno
leggevamo a tavola, e le letture spirituali, in particolare, mi aiutavano a
questo – racconta nella sua Autobiografia, riferendosi alla comprensione della
sua vocazione -. Ma quello che più mi muoveva e incitava era la lettura della
Sacra Bibbia, alla quale sono stato sempre molto affezionato». Una affezione
che si esprimeva concretamente nella lettura quotidiana di due capitoli della
Bibbia, quattro in Quaresima, nel portarla sempre con sé durante i viaggi, nel
raccomandarne la lettura, nella pubblicazione di una edizione bilingue. Ma in
questa esperienza degli inizi c’è qualcosa di più. Non è lui che ama e vuol
penetrare la Parola di Dio, è la Parola di Dio che ama lui e gli si rivela. «Vi
erano passi – continua nel suo racconto - che mi facevano un’impressione così
viva, che mi pareva di udire una voce che ripeteva per me quello che leggevo».
Ci riporta quindi tutta una serie di versetti dall’Antico come del Nuovo
Testamento che si riferiscono alla missione evangelizzatrice e che lo ispirano
nella vocazione. Li introduce con frasi che indicano un manifestarsi di Dio
stesso nella sua Parola: «Da tali parole comprendevo che il Signore mi aveva
chiamato… Conobbi… Il Signore mi diceva… Con queste parole il Signore mi faceva
conoscere… il Signore mi fece capire… In modo tutto particolare, il Signore mi
fece intendere quelle parole: Spiritus Domini super me et evangelizzare
pauperibus misit me Dominus et sanare contritos corde… In molti passi della
Sacra Scrittura sentivo la voce del Signore che mi chiamava perché andassi a
predicare» (Autobiografia, 113-120). Sono frasi che indicano la profonda
origine e motivazione biblica di un carisma.
Diverso eppure sempre
profondamente biblico è l’itinerario di don Giovanni Bosco. Non possiamo
attenderci da lui – non è nella sua natura – che ci racconti la sua esperienza
mistica a contatto con la Parola di Dio. Basta vederne il vasto impiego nel
campo dell’educazione dei giovani per rendersi conto che, a monte, vi è
un’assiduità costante con la Scrittura: un’ispirazione. La Bibbia è stata una
delle fonti privilegiate della sua impostazione educativa - nella predicazione,
nella catechesi, nella liturgia, nella comunicazione, nei Regolamenti - e
quindi delle sue fondazioni. Raccontando di una sua discussione con il suo
parroco su un passo evangelico, il biografo nota che «Don Bosco sapeva a
memoria e aveva meditato tutto il Nuovo Testamento»5.
La parola di Dio è per lui «luce
perché illumina l’uomo e lo dirige nel credere, nell’operare e nell’amare.
[Possiamo ascoltare qui una eco della sua esperienza personale?] È luce perché
sminuzzata e ben insegnata mostra all’uomo quale strada debba battere per
giungere alla vita eterna e felice. È luce perché calma le passioni degli
uomini, le quali sono le vere tenebre, tenebre folte e pericolose tanto da non
potere essere diradate se non dalla parola di Dio. È luce, perché a dovere
predicata infonde i lumi della grazia divina nel cuore degli uditori e fa loro
conoscere la verità della fede»6. È quindi in essa che attinge per la
sua attività catechetico – educativa. Sa infatti che «il cristiano [il
fondatore? possiamo domandarci] è colui che ha la Divina Parola per guida». Don
Bosco nella sua attività evangelizzatrice ed educativa si dimostra consapevole
di questo compito: riferirsi innanzitutto alla Parola di Dio. Volle che iscrizioni tratte dalla Sacra
Scrittura fossero dipinte a diverse riprese sotto i portici di Valdocco. La
prima serie di scritte bibliche apparve sotto il portico accanto alla chiesa di
S. Francesco di Sales nel 1856. Il biografo commenta: «Don Bosco fu molto
contento quando Enria ebbe finito la pittura di queste iscrizioni. Nei sermoni
della sera egli soleva spiegarle brevemente; e passeggiando con qualche
forestiero sotto il porticato, si dilettava spesso a leggere quelle massime
bibliche, qualificandole articoli del suo codice, che costituiscono, come
diceva, l’arte di ben vivere e di ben morire». Si tratta di 30 citazioni
bibliche, scritte in latino con relativa traduzione italiana. Alle citazioni
scritte sui muri occorrerebbe aggiungere le costanti citazioni nei suoi scritti
e nelle sue conversazioni: a volte in italiano, a volte in latino; citazioni
esplicite o implicite che possono risultare una “conflazione” di più testi;
citazioni anche errate o approssimative, oppure a carattere “accomodatizio”.
«Don Bosco non si faceva problema di fedeltà al dettato della Bibbia, quando
erano in gioco la complessità e la sensibilità etica e pedagogica sua e dei
suoi interlocutori» (Stella). Il suo costante ricorso alla Bibbia ha una
finalità morale, educativa, didattica; serve ad indirizzare e a motivare la
risposta dell’uomo all’azione di Dio, che è come presupposta e scontata. Lo si
potrebbe esprimere con le sue parole famose nella prefazione alla prima
edizione della Storia Sacra: «Illuminare la mente per rendere buono il cuore».
Potremmo proseguire lungo tutto
il Novecento. Don Luigi Orione sembra anticipare il documento conciliare Perfectae caritatis n. 2 quando scrive:
«Nostra prima Regola e vita sia di osservare, in umiltà grande
e amore dolcissimo e affocato di Dio, il Santo Vangelo»7. Don Giacomo
Alberione asserisce, senza alcun’ombra di dubbio, che la Famiglia Paolina
«aspira a vivere integralmente il vangelo di Gesù Cristo»8. E la
piccola sorella Magdeleine: «Noi dobbiamo costruire una cosa nuova. Una cosa
nuova che è antica, che è l’autentico cristianesimo dei primi discepoli di
Gesù. È necessario che riprendiamo il Vangelo parola per parola»9.
Veramente possiamo dire, con il
Concilio Vaticano II, che il seguire Cristo come viene proposto nel Vangelo è
la «norma ultima della vita religiosa», «la regola suprema» di tutti gli
istituti (Perfectae caritatis, n. 2).
Si comprende così anche
l’insegnamento di Vita consecrata là dove parla della presenza e del
valore della Parola di Dio. Il documento pontificio legge la storia della
molteplicità delle forme di vita
consacrata «come una pianta dai molti rami, che affonda le sue radici
nel Vangelo e produce frutti copiosi in ogni stagione della Chiesa» (5).
Riconosce quindi che fondatori e fondatrici nell’accoglienza della vocazione e
nel discernimento del carisma e della missione del proprio Istituto si sono costantemente
riferiti ai testi evangelici e gli altri scritti neotestamentari (94). Ed è
grazie alla frequentazione della Parola di Dio che «hanno tratto la luce
necessaria per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutati a
cercare nei segni dei tempi le vie del Signore» (94). Ugualmente, sulle orme di
fondatori e fondatrici «tante altre persone hanno cercato, con la parola e con
l’azione, di incarnare il Vangelo nella propria esistenza» (9).
Perché nata dal Vangelo e vivendo
di Vangelo l’Esortazione apostolica riconosce alla vita consacrata il compito
peculiare «di tener viva nei
battezzati la consapevolezza dei valori fondamentali del Vangelo» (33),
di essere di stimolo alle altre componenti ecclesiali nel quotidiano impegno di
testimonianza al Vangelo (53), di operare
quella funzione di segno, già segnalata dal Concilio Vaticano II, che
«si esprime nella testimonianza profetica del primato che Dio ed i valori del
Vangelo hanno nella vita cristiana» (84). Citando poi Paolo VI ricorda che
«senza questo segno concreto, la carità che anima l’intera Chiesa rischierebbe
di raffreddarsi, il paradosso salvifico del Vangelo di smussarsi, il “sale”
della fede di diluirsi in un mondo in fase di secolarizzazione». Per poi
concludere che «alla Chiesa sono necessarie persone consacrate le quali, prima
ancora di impegnarsi a servizio dell’una o dell’altra nobile causa, si lascino
trasformare dalla grazia di Dio e si conformino pienamente al Vangelo» (105).
La vita religiosa si radica
dunque, fin dal suo inizio e lungo tutta la sua storia, sulla Parola di Dio e
ne è una sua espressione. È la più chiara l’attestazione che non di solo pane
vive l’uomo, ma della Parola di Dio (cfr Mt
4, 4).
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