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Giulio Cesare Croce Bertoldo e Bertoldino (Cacasenno di A. Banchieri) IntraText CT - Lettura del testo |
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Marcolfa. Il Cielo ti salvi e mantenga, o serenissimo Re, e ti accreschi ognora più stato e grandezza. Re. E a voi ogni sorte di consolazione, madonna Marcolfa. Siete voi stanca? Marcolfa. Stanca sarei io s'io non avessi caminato. Re. Come, stanca se voi non avesti caminato? Questo è un gran paradosso; ditemelo più chiaro. Marcolfa. Ve lo dirò, Signore. Colui che camina per obedire al suo superiore, come ho fatto io, non si stanca mai, ma sì bene chi volontieri non lo serve si stanca, anco che vada piano, anzi, se bene ei non si muove, perché ha già stanco il pensiero e la voglia d'aggradirlo innanzi che si ponga in camino. Re. Questo è il più chiaro segno che voi mi potiate dare di esser stata moglie del mio caro Bertoldo, poiché a pena qui giunta avete sputato fuori una sentenza così nobile. Orsù, che gli sia preparato il loro appartamento e che siano vestiti nobilmente secondo l'uso della nostra corte, e che siano condotti dalla Regina. Marcolfa. Di grazia, serenissimo, concedimi un favore, ti prego. Re. Volontieri; comandate pure che cosa volete sicuramente. Marcolfa. Non ci far levare d'intorno questi nostri panni, i quali è tanto tempo che noi siamo usi portare, perciocché chi spoglia l'arbore della sua antica veste, non solo esso non fa più frutti, ma si secca affatto; voglio riferire che, se tu ci fai adornare di panni d'oro e d'argento, noi potressimo, mirandoci talmente addobbati e con quelle spoglie così ricche e di gran pregio intorno, darci ad intendere d'esser di qualche gran lignaggio, scordandoci in tutto la bassezza nostra, montar in superbia e in ambizione e voler farci temere a questo e quello, e insomma inasinirci affatto, poiché non si trova al mondo la più insolente bestia quanto il villano il quale si trova posto in alto stato dalla fortuna; però lassaci i nostri panni, come ho detto, perché mirando quelli staremo ognora umili e bassi, essendo nati per esser servi e non padroni. Re. Gran parole sono queste, che tu dici, e degne da notarsi; e mostri in vero la sincerità dell'animo tuo, e conosco chiaramente che il Cielo dispensa le grazie sue tanto ne' luoghi ruvidi e alpestri quanto nelle popolate città, dove sono le scuole delle scienze e degli studi; e perciò tanto più voglio che tu sii adornata di ricchi vestimenti e che tu sia servita quanto la Regina istessa. Marcolfa. Ascolta, o serenissimo Re, ti prego, prima una filateria piacevole, ma che torna a proposito nostro, la quale mi disse una sera la buona memoria di Bertoldo mio marito, mentre stavamo presso al fuoco a mondare delle castagne. Re. Volontieri v'ascolto; dite pur su. Marcolfa. Mi disse ch'egli avea udito raccontare a suo avolo, che fu una volta là nelle parti della Trabisonda, dove si sbarcano le scorze dell'anguille affumicate, un asinaccio grande e alto di gambe quant'ogni gran cavallo, il quale vedendo un dì certi corsieri con le selle guarnite d'oro e di perle riccamente ornate, e la briglia e il freno con borchie e rosette d'oro, e valdrappe riccamate superbissimamente, gli entrò nel capo (o che bestiazza) di esser anch'esso adobbato in tal maniera, e ne fece motto al suo padrone, pregandolo per quanto egli avea cara la sua pelle come era morto, a voler fargli fare una sella, briglia e valdrappa della maniera ch'avevano quei corsieri, adducendo per ragione ch'esso non era manco nobile del cavallo, essendo anch'esso stato creato con tutto l'altro bestiame in un istesso giorno, onde per antichità non cedeva a nessun'altra bestia che si fusse. Alle cui parole il padrone così rispose: “Messer asino mio caro, non v'accorgete voi che dite una gran baccaleria? Perché, quando furono create le bestie, come voi dite, a ciascuna di esse furono dispensati i loro uffici, cioè il bue all'aratro, il cane al pagliaio, il gatto a prender i toppi, il mulo al basto, il cavallo alla sella, e l'asino qual siete voi alla soma e alle bastonate. Però voi non farete nulla, perché, se bene voi avesti attorno tutto l'oro di Mida, sempre sarete conosciuto per un asino, e poi avete le orecchie tanto lunghe che non potrete mai negare di non esser un asinaccio da legnate, come siete”. A cui rispose messer l'asino: “Se l'orecchie longhe ch'io tengo mi hanno da scoprire per un asino, a questo tosto si trovarà rimedio con il farmele ascortare atteso la testa, che poi allora io parerò un bertone, dove che, come sarò guarnito con la valdrappa lunga e gli altri fornimenti, chi sarà quello che mi scorga per un asino? Fate pur venire or ora il marescalco, e quanto prima mi tagli l'orecchie” (mira che bestiale ambizione d'un asinaccio). Così il padrone per compiacerlo gli fece tagliar tutte due l'orecchie presso alla zucca e l'abertonò galantemente, e poi lo fece guarnire nobilissimamente e lo pose fra i suoi corsieri; il qual per esser sì grande, com'ho detto, fu tolto su le prime per un corsiero di molta stima. Ma perché la natura supera l'accidente, il misero animalaccio, vedendo passar un'asina per strada, subito si discavallò e s'inasinì di nuovo e, lasciando i cavalli, incominciò a correre dietro a quell'asina raggiando, e gettò in terra la valdrappa e la sella e ruppe la briglia e fece mille mali, scoprendosi in tutto e per tutto un vile asino com'egli era; onde coloro che fin allora l'avevano tolto per un cavallo, scorgendolo al raggiare e all'altre asinesche creanze ch'egli era un asino, tosto lo presero e lo menarono nella stalla, e ivi gli dierono una buona prebenda di bastonate e lo ritornarono sotto la soma secondo ch'egli era usato prima. Quest'esempio, o serenissimo Re, può servire a noi, che se tu ci farai vestire riccamente, e mettendoci co' principali della tua corte, ognuno ci mirerà e ammirerà finché staremo cheti; ma, come poi ci udiranno parlare, ci scorgeranno per due goffi e rustici montanari e, dove prima ci avevano in pregio e stima, si faranno beffe di noi e forse ancora ci faranno qualche scherzo. Sicché o lasciaci questi panni bigi che noi abbiamo, o, se pur vuoi farci vestire, facci vestir moderatamente, senza oro né seta, perch'io ti so dire che noi non siamo per riuscire troppo bene in questa corte, e massime questo mio figliuolaccio, il qual è più goffo che lungo e ogni giorno farà qualche disproposito da far ridere la gente, e forse ancora piangere. Re. Questa favola che tu m'hai narrata è molto esemplare, ma non ho dubbio che tu faccia scappate, perché fin ad ora m'hai dato chiaro segno del tuo raro intelletto, e non ti tengo per donna ruvida, se bene i panni e la vil scorza lo dimostrano, ma sì bene per un oracolo; e se bene Bertoldino alcuna volta parlasse o facesse qualche cosa fuora di proposito, come tu dici, sarà sempre per iscusato per esser egli giovane e non ancora esperto nelle città, e ogni dì praticando con questi cortegiani piglierà senno e ingegno. Tu dunque, Erminio, menali agli loro appartamenti e falli vestire di buon panno fino e provedigli di quello che gli occorre, e, come son posati, conduceli dalla Regina, ch'io so che li vedrà molto volontieri. Erminio. Tanto farò, Signore. Orsù, venite con esso meco. Bertoldino. E dove ci volete voi menare? Erminio. Venite pur meco e non vi dubitate, ch'io vi voglio menar nell'alloggiamento di vostro padre. Bertoldino. Mio padre alloggia sotto terra, lui, e però voi ci volete seppellire con esso lui. O mia madre, torniancene a casa nostra. Marcolfa. Ei vuol dire nelle stanze dove alloggiava tuo padre quando egli era vivo, balordo che tu sei. Bertoldino. Faceva dunque osteria mio padre? Bertoldino. Ma s'ei dice dove alloggiava mio padre, forza è ben ch'egli fosse oste. Marcolfa. Ei vuol dir dov'egli abitava, cioè le stanze dove stava. Ohimè, ben lo diss'io, ch'io sarei impacciata qua giù con questo bestiolo. O, foss'io restata a casa mia, volesselo il Cielo! Erminio. Orsù, venite pur meco e non vi sgomentiate, ché questo non è nulla.
Così Erminio li condusse in una bellissima stanza tutta adobbata di panni d'arazzi e spalliere d'oro, co' due letti ornati di padiglioni di broccato e cupola d'oro, e coperte di seta con bellissimi ricami e altre cose di grandissimo valore, e dopo fece venire lo sartore del Re a vestirli alla civile; dove che, stringendo esso alquanto il giuppone alla gola a Bertoldino, come a quello ch'era usato a portare i panni larghi, credendo che il detto sartore lo volesse affocare, incominciò a dire gridando:
Bertoldino. Perché mi fa impiccare il Re? o strangolarmi qui? Sartore. Perché impiccare o strangolare? Che cosa dici tu? Bertoldino. Non sei tu il boia? Sartore. Io non sono il boia altramente, ma sì bene il sartore del Re. Bertoldino. L'hai tu mai impiccato lui? Sartore. Perché vuoi tu ch'io l'impicchi, s'egli è mio Signore? Bertoldino. Perché impicchi tu me adunque, se mai non l'hai appiccato lui? Sartore. Come, che io t'impicco? e che cosa ti faccio io da impiccarti? Bertoldino. Tu mi stringi tanto la gola ch'io non posso avere il fiato. Sartore. Egli è il vestimento, che va così assettato alla gola, e per questo a te pare che io t'affochi nell'accomodarlo. Bertoldino. Se tu vai stringendo un poco più, io non terrò saldo, perché sento che mi vien suso un castagnaccio ch'io ho mangiato poco fa. Guarda che il viene; non te lo diss'io, ch'io non terrei saldo?
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