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Giulio Cesare Croce
Bertoldo e Bertoldino (Cacasenno di A. Banchieri)

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  • Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino. figliuolo del già astuto e accorto Bertoldo con le sottili e argute sentenze della Marcolfa sua madre e moglie del già Bertoldo   Opera tanto piena di moralità quanto di spasso
    • L'ortolano va alla città per chiarirsi dalla Regina della causa di simil fatto.
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L'ortolano va alla città per chiarirsi dalla Regina della causa di simil fatto.

 

Così l'ortolano, tutto pieno di colera, senza indugiare punto corse alla città e, andato dalla Regina, gli narrò questo negozio, domandando a lei s'era vero ch'essa avesse commesso a Bertoldino che si tirasse sua moglie dietro per la villa, e che gli rovesciasse i panni in capo e gli facesse simil insolenza. La Regina si stupì di tal fatto e rispose ch'ella non gli avea commesso tal cosa, anzi, che essa l'aveva ammonito, se egli voleva apprendere la creanza della corte, ch'ei si attaccasse alla modestia e tirasse dietro a quella strada, che si sarebbe ben creato e imparerebbe il procedere civile; “e non gli ho detto altramente, che egli s'attacchi ai panni di tua moglie, né d'altra donna della villa”.

Ortolano.  Ohimè, Signora, mia moglie ha nome Modesta.

Regina.  Tua moglie ha nome Modesta?

Ortolano.  Signora sì.

Regina.  Orsù, io t'ho inteso. Costui haffatto giusto con tua moglie quello che haffatto qui con la Libera mia cameriera, che il Re mio consorte gli aveva detto ch'egli dicesse quello che gli pareva via alla libera; e, avendo il goffo pensato che dicesse a questa Libera, avendola sentita chiamare così per nome, vi è stato un gran che fare a poterglielo levare d'intorno.

Ortolano.  Orsù, questa è stata un'altra babionata a questa foggia, che il nome di mia moglie ha causato questo disordine; però, con sua buona grazia, io me ne tornerò a casa, che questo bestionaccio non ne facesse di peggio.

Regina.  Orsù vattene, e di' alla Marcolfa che quanto prima venghi da me, che io ho grandissimo bisogno di lei.

Ortolano.  Tanto farò, serenissima Signora.

 Così l'ortolano tornò a casa e narrò il tutto alla moglie, quale se ne era fuggita a casa e serratasi in una stanza, perché ancora aveva sospetto di colui; e con bel modo poi lo placorno, sì che esso non gli fece più nessun oltraggio. Poi l'ortolano disse alla Marcolfa che andasse quanto prima dalla Regina, la quale avea grandissimo bisogno di lei; ed ella senza dimora tornò alla città e, giunta innanzi alla Regina, gli fece la debita riverenza, ed essa, amorevolmente e con benigna faccia accogliendola, la fece sedere appresso di lei, e poi gli disse:

Regina.  Io avevo grandissimo bisogno di voi, madonna Marcolfa; io dico tanto bisogno, ch'io non so se mai ebbi bisogno di nessuna altra persona al mondo quant'io avevo ed ho di voi ora.

Marcolfa.  Il bisogno viene da necessità, e la necessità dalla povertà, e la povertà da non avere quella cosa della quale s'ha carestia. Però, avendo voi bisogno ora di me, venite a essere povera più di me in questo fatto, che non ho bisogno di voi, né di nulla del vostro; ed ecco che io vi ho provato che ognuno, per grande e quanto potente si voglia, ha bisogno di qualche cosa.

Regina.  Voi dite la verità, e con chiara ragione mi avete provato questo, onde io non dirò più ch'io sia felice e ch'io non abbia bisogno di nulla, perché, come voi avete detto, avendo io ora bisogno di voi, vengo a esser più povera di voi, non avendo voi bisogno di me. Orsù, lasciamo andare un poco questo da parte per ora. Il bisogno ch'io ho di voi adesso ve lo dirò, e bisogna che voi mi aiutate in una cosa.

Marcolfa.  Pur ch'io sia buona, mia Signora, son qui pronta per servirla.

Regina.  Se non fusti buona non vi averei fatta venir qua giù con tanta instanza. Voi dovete dunque sapere come questa notte passata l'abbiamo spesa tutta in canti, in suoni e balli, e nell'ultimo poi è stato proposto da questi cavalieri e dame di fare un gioco da mettere suso de' pegni, e così ciascuno aveva messo suso un pegno, dove che per riscuotergli si comandava varie cose, facendo chi recitare delle ottave, chi de' madrigali, chi come poner lettere amorose, chi una cosa, chi un'altra, secondo il voler di chi avea il pegno in mano, onde a me, ch'avevo posto suso un ricco diamante per pegno mi fu dato un quesito da esplicare, se io lo voleva riscuotere; il quale quesito fu questo, notatelo bene: “Non ho acqua e bevo acqua, e s'io avessi acqua berrei del vino”. E io mai non lo potei indovinare, e mi sono lambiccato il cervello dietro, e quanto più ci vado pensando, tanto più mi avviluppo; e quel cavaliero che tiene il detto diamante non me lo vuol dare per fin ch'io non gli spiano il detto quesito. Ora il bisogno ch'io tengo di voi è questo, ch'io so che siete di sottile e acuto intelletto, che voi mi dicesti quello che vuol dire questo quesito, perché mi pare molto intricato da dichiararlo, dicendo che vi è uno che non si trova aver acqua, e pur beve dell'acqua, e che s'egli avesse dell'acqua ch'esso berrebbe del vino. Indovinala tu grillo. Sì che bisogna qui che strologate un poco per me, acciò io possa chiarire il detto enimma e riscuotere il mio pegno.

Marcolfa.  Altro bisogno non v'è che questo per conto mio? O, questa è una cosa che la sanno tutti i nostri pecorari su.

Regina.  È possibil questo? Io la tengo per una cosa molto intricata.

Marcolfa.  Orsù, io ve la voglio dizziferare or ora.

Regina.  Ciò mi sarà di grandissimo contento, e vi restarò obligata.

Marcolfa., Il quesito dunque, che voi dite, è un monaio, il qual sta in un molino di quelli che non hanno mai acqua se non quando piove; onde, non avendo acqua da poter macinare, non può guadagnar tanto che si compri del vino, onde esso e la sua famiglia conviene bere dell'acqua, che s'egli avesse dell'acqua in abbondanza, da poter macinare, si potrebbe comprar del vino e non sarebbe necessitato a bere dell'acqua: e questa è la vera e reale interpretazione dell'enimma a voi proposto. Avetelo voi bene inteso?

Regina.  Benissimo l'ho inteso, e veramente conosco che la sua interpretazione sta così giustamente; ma io mai non avrei saputo indovinarlo, e vi ringrazio infinitamente e con questo io voglio riscuotere il mio pegno. Ma, di grazia, andate dietro così ragionando di qualche cosa, che le vostre parole mi levaranno un poco l'umore.

Marcolfa.  Mala cosa è quando il fiume esce fuora del suo letto, ma peggio assai quando viene l'umore all'uomo o alla donna potente.

Regina.  Perché?

Marcolfa.  Perché il fiume spaventa i campi a lui vicini solamente, ma l'uomo potente, quando si trova un fantastico umore nel capo, spaventa tutto il suo stato e i suoi sudditi insieme.

 

Regina.  Sì, quando l'umore procedesse da qualche strano pensiero di ricevuto oltraggio, e aspirare alla vendetta o a qualche suo gran dissegno, e non lo poter essequire; ma l'umor mio non procede da nessuna di queste cose, anzi non vi saprei dire io stessa da che si vegna, basta ch'io sento che io ho l'umore.

Marcolfa.  Chi ha umore non ha sapore.

Regina.  Io non v'intendo.

Marcolfa.  Dirò in modo che m'intenderete. L'acqua perché si chiama umida?

Regina.  Perché ella è umore che bagna e rende umido e molle per tutto ov'ella passa.

Marcolfa.  Voi dite benissimo, e quando la bevete di che sapore vi sa ella?

Regina.  Di niente, anzi è insipida e di poco gusto.

Marcolfa.  Eccovi, dunque, che chi è umorista non ha amoresapore, e poco gusto a chi lo prattica, anzi viene a nausea a tutti. Ben è vero che vi sono degli umori di più sorte, perché ve ne sono degli allegri, de' malenconici, de' pazzi, de' bestiali, de' piacevoli, de' fastidiosi, degli umori falsi e deglì umori leggieri e semplici, anzi balordi affatto, come ora si trova essere questo mio bambocciaccio di figliuolo, il quale, per esser sempliciotto e goffo, tiene fra tutti gli altri il primo loco.

Regina.  Non viene ch'egli sia pazzo, ma viene ch'egli è alquanto ottuso di cervello. Ma come può essere che di Bertoldo e voi, che siete stati l'istessa accortezza, sia uscito un figliuolo di così poco giudicio?

Marcolfa.  Io vi dirò, Signora. Voi sapete che, quando noi donne siamo gravide, ci viene volontà di cose stravaganti, e ve ne sono state di quelle che gli è venuto voglia fin di sterco di bue, di milze, di teste di lepre, di magoni, e insomma chi d'una cosa, chi d'un'altra, secondo ch'elle avranno veduto o imaginato. Onde a me, mentre ero gravida di costui, venne voglia d'un cervello d'oca, e mi toccai il capo, e per questo costui è nasciuto con un cervello d'oca, la qual è un animale il più balordo che si trovi; e che sia la verità, l'oca è tanto priva d'intelletto, che mai la sera non sa trovar la stanza ov'ella suol dormire, e si dura più fatica a guidar un'oca la sera al pollaio, che non si fa tutto l'altro bestiame. E questa è la causa che costui è così simpliciaccio e balordo.

Regina.  Orsù, madonna Marcolfa, bisogna aver pazienza. Ve ne sono degli altri che sono peggio di lui. Per questo, egli non fa cose che non si possino tolerare, ma tutte sono cose burlevoli e da spasso. Or voi menatela un poco a merenda.

Marcolfa.  Io non voglio far nulla, ma me ne voglio tornare a casa, perché io mi stimo di trovare qualche cosa di nuovo, secondo il solito. Il Cielo da male vi guardi.

Regina.  Andate in pace, e tomate spesso da me, che sempre vi vedrò volontieri.

 

 

 

 




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