RE,
MARCOLFA E REGINA
Re.
Ben venuta, Marcolfa; godo vedervi viva.
Marcolfa.
Ed io vivendo per veder le Maestà loro, ne ringrazio il cielo di tanto dono.
Regina.
Mi riconoscete, o Marcolfa?
Marcolfa.
Tali sono gli obblighi ch'io le devo, mercé le grazie e doni e favori ricevuti
già alcuni anni sono, mentre fui in questa Regia Corte con mio figlio
Bertoldino, che ho sempre avanti gli occhi impresse l'effigie d'amendue, e
questo sia detto senza alcuna adulazione; e quantunque io sia una povera
montanara, sempre la verità e realtà, mi è piaciuta, perché sanno bene loro
quanto il mio marito, mentre visse, fosse accorto, pronto ed arguto nelle belle
sentenze, proverbi e salutifere moralità, dal quale più volte sentii uscirgli
di bocca queste due belle sentenze:
1. Il Povero
superbo
È come un frutto acerbo,
Ma il Povero benigno
È come l'or del scrigno.
2. Il Povero
bugiardo
Fa come il topo al lardo,
Ma il Povero reale
Tant'oro a peso vale.
Re.
Sentenze veramente da imprimersi a lettere d'oro; ma lasciamo i complimenti:
dov'è Cacasenno?
Marcolfa.
Eccolo qui meco; vieni avanti Cacasenno. Ohimè, dov'è restato? era pure in mia
presenza; dove sei?
A questo
chiamare, i Palafrenieri di Corte, alzando la portiera, fecero entrare
Cacasenno, il quale sopra le spalle si trascinava un uscio di legno.
Il Re e la
Regina, a questa gustosa entratura ebbero a smascellarsi dalle risa, intendendo
tal stravaganza; ma più stupita restò la Marcolfa di tal cosa; e quivi il
Maggiordomo di Corte, che si trovò presente, appena potendosi contenere dalle
risa, così disse alle Regie Corone:
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