MARCOLFA,
RE E REGINA
Marcolfa.
Serenissime Corone, sappiano che questo Cacasenno non è meno semplice di quello
che già fu in questa Corte Bertoldino suo Padre; tal fu l'albero, tal'è il
frutto: però non prendano meraviglia delle sue inezie; io volentieri l'ho
condotto qui in Corte per obedire, desiderosa però quanto prima esser di
ritorno alla mia casa per molte fatiche che vi ho.
Re.
Bertoldino vostro figlio che fa, è egli vivo?
Marcolfa.
È sano vivo, e all'uscir di fanciullezza è divenuto accorto, ed ha preso
moglie, dalla quale è nato il nostro Cacasenno; mercé i donativi che ne furon
fatti in questa Corte, siamo assai comodi in beni di fortuna.
Re. Ed
è vero quanto mi dite di Bertoldino?
Marcolfa.
Verissimo; io non direi bugia a lei, mio Signore, e quando non le fosse di
tedio le vorrei raccontare un caso seguìto di quelli che raccontava Bertoldo
mio marito in proposito di uno che, dicendo una bugia al suo Prencipe, si perse
mille fiorini.
Re.
Ditelo pure, che ne sarà di sommo gusto.
Marcolfa.
Fu già un Prencipe, che aveva in Corte un Servo molto familiare. Occorse che un
Cittadino, vedendo la gran familiarità che il Servo teneva con il suo Signore,
ricercò per suo mezzo una grazia, offerendogli, se l'otteneva, un donativo di
mille fiorini; al suono dei quali li fu promesso operar il possibile acciò la
grazia si ottenesse. Stando in questo, il Servo familiare ricorse al Prencipe e
li chiese la grazia, e per effettuarla più facilmente vi annesse una bugia, con
dire che la grazia da lui ricercata era in persona di un suo fratello. Il
Prencipe disse che vi penserebbe un poco sopra e poi risolverebbe sì o no; ma
poiché le bugie hanno corte le gambe ed al bugiardo ricercasi buona memoria, il
Prencipe si ricordò che il suo familiare, già una volta ragionando, dissegli
non aver fratelli; onde, per scapricciarsi segretamente fece chiamare il
Cittadino che desiderava la grazia, e quando gli fu davanti, dissegli il
Prencipe: O dimmi la verità, o tu resti privo della grazia mia. Risposeli il
Cittadino di sì. Soggiunse il Prencipe: Il tale è tuo fratello? Rispose il
Cittadino di no. Replicò il Prencipe: Perché ti ha egli impromesso farti avere
la grazia che tu desideri? Rispose il Cittadino: Avendogli impromesso, subito
ottenuta, un donativo di mille fiorini. Disse di nuovo il Prencipe: Or dà a me
li mille fiorini, e siati fatta la grazia; e comandolli che di ciò non facesse
alcun motto all'amico. Il familiare intanto, non sapendo il negozio fra il
Prencipe ed il Cittadino, trovandolo un giorno di vena, gli ricordò la grazia
di quel suo fratello; allora il Prencipe argutamente gli rispose: Vatti pur
trova un altro fratello, perché quello che tu pensavi dovesse esser tuo è
diventato mio.
Re
Onde applicando, il fratello erano i mille fiorini. Arguta risposta, e gioiosa
invenzione certo; ma torniamo un poco al nostro primo ragionamento; per che
cagione non ci avete dato contezza di voi, che ogn'anno v'averessimo mandato
qualche cosa.
Marcolfa.
Indiscreto è quello che non si contenta dell'onesto; fu invero grandissima la
magnanimità loro quando alla nostra partenza ne furono donati in quel cofanetto
li mille scudi, quattro pezze di panno, duecento braccia di tela, dieci soma di
grano, ed altre tante botti di vino, le quali cose da noi furono vendute, e
compratone tanti beni, onde possiamo campare più che da pari nostri.
Re. E
perché non vi vestiste di quel panno e tela, non mangiaste quel grano, e
beveste quel vino?
Marcolfa.
Perché il nostro felice paese di montagna ricerca vestimenti rozzi, pane
mesturato e bere acqua continuamente, li cui cibi e vestiti conferiscono
grandemente alla sanità.
Re
Quello che si contenta gode; potendo mangiare buon pane e bever buon vino, mi
pare gran semplicità il cibarsi di mestura ed acqua.
Marcolfa.
Tra l'altre male cose, il bever vino a quelli che non sono avvezzi si è la
peggiore per la sanità, sì come sortisce agli avvezzi bevendone di soverchio;
ed in tal proposito, se alle Maestà loro non porto tedio, voglio narrargli una
favola raccontatami da mio marito in proposito di chi beve soverchio.
Re.
Eccoci attenti per ascoltarvi, ditela pure.
Marcolfa.
Un Gentiluomo principale Todesco, volendosi partire dalla patria per
trasferirsi a vedere la maravigliosa Città di Roma, ed insiememente scorrere il
delizioso Regno di Napoli, si pose in cammino con un Servitore suo fidato e
pratico di tali paesi; e gionti che furono a Bologna, ordinò pertanto il
gentiluomo al Servo che andasse avanti, e in tutte le Città, Castelli, Ville e
Borghi che sono per la strada maestra, ed in tutte le Osterie si fermasse, e
gustasse se ivi era buon vino; e quando l'aveva gustato ivi si fermasse o
ponesse sopra la porta dell'Osteria una lettera maiuscola in lingua latina, che
dicesse EST, cioè: Quivi è buon vino. Il Servo obedì; e mentre il
Gentiluomo trovava un'Osteria, né vi vedeva la maiuscola EST, diceva tra
sé: Nitte, ed andava avanti; e quando trovava la maiuscola EST,
ivi si fermava un giorno, sì per veder quel luogo, sì anco per gustare così
buona bevanda. Così camminando verso Roma, giunse il Servo a una Terra del
Serenissimo Gran Duca di Toscana, situata a mezza strada tra Firenze e Siena,
nominata Poggibonsi (che fu patria del famosissimo Cecco Bembo) e fermatosi
all'Osteria delle Chiavi, trovò ivi tre variate sorti di vini esquisiti,
Vernaccia, Moscatello e Trebbiano. A questa trovata fece il Servo un Epitaffio,
replicando tre volte la maiuscola così EST, EST, EST.
Giunto il padrone, e gustati tali Vini, concluse ivi trattenersi tre giorni, né
saziandosi di berne, tanto vi soverchiò, che fu miserabilmente assalito da un
improviso soffocamento, dove in poche ore se ne morì. Il Servitore mal
contento, ritornatosene al suo paese con così trista novella, a tutti li
parenti ed amici che li dimandavano del suo Padrone, loro rispondeva con questi
due versi latini:
Propter EST, EST, EST,
Dominus meus mortuus est
Sì che
applicando dico, che il vino per lo più genera infiniti disordini, onde ne
derivano diverse infermità, ed a noi là su in montagna non gusta, ma più ne
piace quelle nostre acque freschissime, lucide come specchi e chiare come
cristallo, che in dolce mormorio scaturiscono da certe pendici in concave
fontane, le quali acque si rendono non solo delicate al gusto, ma ne liberano
dalle indigestioni.
Regina.
Graziosa novella invero è stata quella di quell'infelice Todesco, sì come pur
troppo è vero quello che ne avete significato.
Re.
Intanto imaginandomi, o Marcolfa, che siate stanca dal lungo e faticoso
viaggio, andate a reficiarvi e riposarvi insieme; poi ritornateci a vedere con
il vostro Cacasenno.
Chiamò il Re
il Maggiordomo, ed ordinò che alla Marcolfa ed a Cacasenno fossero assegnate
stanze, come fu eseguito, e giunta che fu la Marcolfa all'appartamento, vide
Cacasenno disteso in terra che gridava, con la pancia in giù: Ohimè, ohimè! né
potendolo Attilio Servo quietare, la Marcolfa dimandolli il perché, e così
disse:
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