CACASENNO
E MARCOLFA
Cacasenno.
Ohimè, o infelice me, dove sono?
Marcolfa.
Che hai il mio Cacasenno? Che rumore è stato questo?
Cacasenno.
Son caduto, né so di dove, e mi sono cavati gli occhi.
Marcolfa.
Oh sventurata me, che dirà Bertoldino mio figlio e Menghina mia Nuora, quando
sapranno che tu sei cieco? dove sei?
Cacasenno.
Se son cieco, come volete che vegga ove sono?
Marcolfa.
Aspetta che aprirò le finestre.
Cacasenno.
Allegrezza, allegrezza, mia Nonna, che mi sono tornati gli occhi come prima.
Marcolfa.
Deh animale, eri cieco perché erano chiuse le finestre; levati su, dimmi, ti
sei fatto male?
Cacasenno.
Mi sento doler le natiche, ma non me ne curo, per l' allegrezza d' aver trovato
gli occhi.
Stando la
Marcolfa e Cacasenno in quelle loro inezie, il Servo che di commissione del suo
Signore stavasi appiattato dietro una bussola dell'anticamera, lesto come un
gatto non poté contenersi di non correre a dar ragguaglio della perdita degli
occhi, che aveva fatto Cacasenno. Quanto per ciò si ridesse, ciascuno se lo può
immaginare, tanto più che il Servo scaltrito minutamente raccontava il tutto.
Intanto la Regina disse al detto Servo che facesse ambasciata alla Marcolfa in
suo nome, che desiderava ragionar con lei per certo suo negozio particolare, ma
desiderava venisse sola, lasciando Cacasenno alle stanze. Attilio, al
comandamento della Regina, fece l'ambasciata alla Marcolfa; così intanto disse lei
a Cacasenno:
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