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Rino Fisichella
La santità forma di credibilità della vita cons.

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  • Una premessa epistemologica
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         “Occorre riscoprire in tutto il suo valore programmatico il capitolo V della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, dedicato alla “vocazione universale alla santità”. Se i Padri conciliari diedero a questa tematica tanto risalto, non fu per conferire una sorta di tocco spirituale all’ecclesiologia, ma piuttosto per farne emergere una dinamica intrinseca e qualificante. La riscoperta della Chiesa come “mistero”, ossia come popoloadunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, non poteva non comportare anche la riscoperta della sua “santità”, intesa nel senso fondamentale dell’appartenenza a Colui che è per antonomasia il Santo, il “tre volte Santo” (cfr Is 6,3). Professare la Chiesa come santa significa additare il suo volto di Sposa di Cristo, per la quale egli si né donato proprio al fine di santificarla (cfr Ef 5,25-26). Questo dono di santità, per così dire oggettiva, è offerto a ciascun battezzato. Ma il dono si traduce a sua volta in un compito, che deve governare l’intera esistenza cristiana: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4,3). E’ un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità1.

         L’espressione di Giovanni Paolo II in Novo millennio ineunte costituisce lo scenario su cui costruire alcune riflessioni concernenti la relazione tra santità, vita consacrata e credibilità della fede. In poche battute, vengono delineati in sintesi gli elementi fondamentali della teologia della santità e le caratteristiche che la rendono una vocazione universale. Con il richiamo all’insegnamento del Vaticano II viene presentata l’indissolubilità tra la vocazione alla santità e la natura stessa della Chiesa; in quanto imago Trinitatis essa porta impressa in sé la forma sanctitatis del Dio di Gesù Cristo. A partire da qui sorge la chiamata e la vocazione di ogni singolo battezzato a fare della santità lo stile proprio della sua vita credente come risposta personale alla libera decisione di fede.

Porre la santità come “programma pastorale” per il cammino della Chiesa nel terzo millennio della sua storia, comunque, obbliga la teologia ad almeno una duplice riflessione. In primo luogo, essa è chiamata verificare in che modo possa corrispondere nel supportare il lavoro pastorale con l’intelligenza della fede; ne segue il suo impegno ad elaborare prospettive che permettano di delineare un orizzonte di pastorale che sia appunto carico dell’intelligenza critica. In secondo luogo, la teologia deve lasciarsi provocare dal richiamo alla santità per permeare la sua indagine, il suo insegnamento e la sua stessa metodologia in maniera conforme all’oggetto primario del suo studio. Nel momento in cui la teologia è chiamata a questo compito non viene affatto meno nella sua opera di lavoro scientifico a cui deve riferirsi per essere coerente con l’epistemologia che la sostiene. Rimane ancora attuale fino ai nostri giorni l’implacabile considerazione di H. U. von Balthasar quando, in proposito, scriveva: “Nella storia della teologia cattolica è difficile trovare un avvenimento, che sia stato in minor misura oggetto di attenzione2. Il rimprovero del teologo svizzero non è privo di fondamento. Se c’è un tema che la teologia dovrebbe sempre avere sotto gli occhi questo è appunto quello della santità., perché le permette di accedere al contenuto proprio della sua riflessione con la dovuta coerenza e profondità. Questa prospettiva, comunque, assume oggi un interesse sempre maggiore. Se qualcuno, infatti, non vorrà seguire l'indicazione epistemologica per un equivoco sul senso della scienza teologica, questa gli verrà quasi imposta dalla scienza per l’impegno che sta ponendo nel ricondurre in unità la vita con il sapere.

Chi di noi, d'altronde, potrebbe eludere questa dimensione del coniugare la propria docenza con la testimonianza di vita? Se questo, malauguratamente avvenisse, saremmo schizofrenici e incapaci di un insegnamento credibile ed efficace. Noi non insegniamo una teoria, fosse anche la più elaborata e perfetta che esista, noi siamo anzitutto testimoni del mistero che abbiamo percepito nella nostra esistenza come una chiamata alla sequela. Di questo mistero che impegna la vita personale, cerchiamo l’intelligenza per permettere a noi stessi, in primo luogo, di esprimere la libertà della scelta di fede e per consentire all’altro di entrare in un circuito comunicativo che si fa forte di una ragione universale. Come teologi, quindi, dobbiamo anzitutto rispettare la condizione che fa di noi un soggetto epistemico; per questo abbiamo l’obbligo scientifico di partire da ciò che pone in atto la nostra scienza: dal mistero di santità che proviene dalla rivelazione di Dio all’umanità.

E’ maestro insigne di questa prospettiva Dionigi l’Aeropagita. Nessuno come lui, forse, ha saputo esprimere al meglio l’unità tra il contenuto della rivelazione e la vita di santità che ne proviene. Ricordiamo come l’Aeropagita nel suo De ecclesiastica hierarchia ponga, quasi fossi un apriori imprescindibile, l’identità tra l’ufficio che viene ricoperto nella Chiesa e la santità. Certo, non sfugge neppure a lui quanto sia presente nella concretezza dell’esistenza personale la condizione del peccato; nonostante questo, però, egli sostiene che per comprendere la Chiesa in tutta la sua realtà è necessario partire da ciò che essa deve essere, prima ancora di presentarla per quello che è. Per questo i gradi gerarchici devono essere posti su un piano di identità con i gradi di purificazione interiore. Per capire, quindi, come debba essere di per sé l’ufficio episcopale, Dionigi ritiene che questo possa essere ricoperto da un cristiano perfetto che possiede la pienezza della contemplazione, la forma più alta dell’iniziazione al mistero di Dio3. Gli esempi classici che sono sotto i nostri occhi, dal periodo patristico fino al Medioevo, riportano a questa unità di fondo che trova riscontro nei nomi dei grandi teologi, nello stesso tempo pastori e santi: Agostino, Ambrogio, Gregorio Nazianzeno, Basilio, Anselmo, Beda, Bernardo, Pier Damiani… questi nomi non sono che l’inizio di una lunga schiera di uomini che nell’unità tra ministero e vita hanno espresso la santità della vocazione. Teresa di Lisieux, d’altronde, proclamata da Giovanni Paolo II “dottore della Chiesa” è un segno inequivocabile della volontà di recuperare una dimensione tra le più coerenti della teologia quale la santità. Nell’umiltà della clausura di un carmelo, Teresa riesce ad essere a pieno titolo missionaria del vangelo, pastore di anime e mente speculativa che nella vocazione all’amore vive della più genuina santità. E' ben conosciuto il famoso brano con il quale s. Teresa descrive la scoperta della sua vocazione che è nello stesso tempo chiamata alla santità: “Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi trovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio, volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Compresi che la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall'amore. Capii che solo l'amore spinge all'azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore, gli apostoli non avrebbero più annunciato il vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue. Compresi e conobbi che l'amore abbraccia in sé tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che si estende a tutti i tempi e a tutti i luoghi, in una parola, che l'amore è eterno. Allora con somma gioia ed estasi dell'animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l'amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà4. Non sarà certo da specificare ulteriormente che questa prospettiva non relega la problematica a una marginale considerazione della “spiritualità”, ma ne costituisce la nota essenziale se si vuole elaborare una teologia pienamente scientifica. Sul tema della santità, così delineato, si inserisce a pieno titolo quella corrispondenza interdisciplinare che permette di elaborare dati capaci di prospettare unitariamente l’apporto dei nostri contenuti con la vita della sequela.

 





1 Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica  Novo Millennio Ineunte,  30.



2 H. U. von Balthasar, “Teologia e santità” in Verbum Caro, Brescia 1980, 200.



3 Cfr. Dionigi, De ecclesiastica hierarchia, PG  III,369-584.



4 Teresa di Lisieux, ….





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