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Maria Antonietta Torriani Torelli-Viollier alias Marchesa Colombi In risaia IntraText CT - Lettura del testo |
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III Questa volta la risaia a cui la mandava il sensale era molto lontana, sul territorio di Borgo-Vercelli, a circa otto miglia da Trecate. Le donne, specialmente quelle uscite appena di convalescenza, giunsero stanche coi piedi gonfi ed indoloriti. Nanna, seduta sulla paglia che doveva servirle di letto, si teneva quei poveri piedi tra le mani ed era spaventata di vederli ridotti a quel modo. Ma le piú robuste le dicevano: — Non badarci; dormi. Domattina avranno da star tanto in bagno che si rinfrescheranno piú del bisogno — e si sdraiavano cinguettando sulla paglia del fienile, e si addormentavano ridendo. Nanna finí per addormentarsi anch'essa; ed era tanto stanca, che tirò via a dormire fino al mattino senza voltarsi. Quando la svegliarono si guardò intorno sbalordita e disse: — È sempre notte. Infatti non erano ancora le quattro; alle quattro bisogna essere sul lavoro. Cominciava appena ad albeggiare; tutta l'immensa pianura era avvolta in un vapore grigio e pesante. Nanna provò un senso di ribrezzo nell'entrare nella risaia; e quando si trovò coll'acqua fin sopra le ginocchia, ed il capo in quella nuvola bianchiccia che la velava tutta, si sentí mancare il fiato. — Oh Dio! — mormorò. — Mi pare che questa cosa bianca sia la febbre, e che mi entri pel naso, per gli orecchi, per la bocca — e rabbrividiva tutta. — Eh! Ragazza! Cosa si fa? — Le gridò l'assistente dei lavori. Nanna si curvò in fretta e si pose a mondare il riso dalle male erbe. Ma si sentiva triste ed abbandonata in quella pianura grigia; aveva voglia di piangere; e tratto tratto guardava in su, per vedere se spuntasse un occhio di sole a diradare quel vapore, che le pesava sui polmoni e sul cuore. Povera Nanna, che razza di desiderio! Quando il sole venne, un sole di giugno che bruciava come una fiamma, si sentí cuocere il cervello ed arder le carni. Il sudore le scolava giú lungo il collo, le cadeva dalla fronte in grosse goccie, che piombando nell'acqua della risaia, vi segnavano dei cerchi come fossero sassolini. E da quell'acqua stagnante, e riscaldata, esalavano miasmi puzzolenti che sconvolgevano lo stomaco. Verso le due l'ardore del sole era cosí intenso che pareva di sentirsi guizzare intorno delle lingue di fuoco, che lambissero le carni, che succhiassero il sangue. Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si faceva piú insopportabile. Nanna aveva la nausea. Si rizzò cogli occhi iniettati e le vene della fronte inturgidite dal lungo star china, e disse con profondo sconforto: — Ma è una vita d'inferno! — Eh! Laggiú, Nanna! Al lavoro! — gridò l'assistente. — Via, cantiamo — disse una donna che le stava accanto, avvezza già a quelle torture. — Ti passerà piú presto il tempo, soggiunse; non ci sono piú che due ore di lavoro — ed intonò la canzone:
Bersaglier di Garibaldi Colla piuma sul cappel,
Ad una ad una, da vicino, da lontano, di qua, di là, le mondatrici si unirono a quella voce e formarono un coro. Nanna pure cantò la prima strofa. Ma aveva troppa nausea; non poté continuare, e quelle note lente, cadenzate gemebonde, la fecero piangere. Alle quattro, quando uscí dall'acqua dopo tante ore di quella fatica, non poteva reggere al riflesso abbagliante del grande piano bianco dardeggiato dal sole. Al lungo guardare nell'acqua, lucente come uno specchio, gli occhi erano spossati e non resistevano piú alla luce; dovunque li volgesse vedeva una palla azzurra fluttuarle dinanzi. — Oh Signor Iddio! — pensava; — come potrò resistere? — Ma poi osservava le sue compagne, che, sebbene riscaldate, grondanti sudore, s'avviavano allegramente al riposo come dopo un lavoro ordinario, e si rassicurava un poco, e diceva: — Se si sono avvezzate loro, mi avvezzerò anch'io. Intanto udiva i discorsi di due grosse fanciulle che camminavano innanzi un passo da lei: — Quante ne hai prese tu? — Cinque. — Hai guadagnato una lira. È il prezzo di una mezza giornata di lavoro; e senza fatica. Senza fatica! Questa parola suonò come una melodia all'orecchio della povera Nanna, in quello stato di prostrazione e di scoraggiamento. Ella stette a sentire. — Una lira? — disse la fanciulla. — Tu le metti venti centesimi ciascuna? — Ma sí. È il prezzo che ne prendo io. — E dove? Io non ho mai avuto piú di tre soldi. — Chi sa a chi le hai vendute. Se domenica vieni a Novara con me, ti faccio avere venti centesimi ciascuna. Vedrai. Nanna, curiosa di conoscere quel segreto che faceva guadagnare denaro senza tanti stenti, domandò: — Eh! Ragazze! Cos'è che ci avete da vendere a Novara? — Le sanguisughe — rispose una delle due vicine fermandosi per aspettarla. — Tu non ne hai prese? — domandò l'altra compagna a Nanna. — Io no. Mi venivano intorno alle gambe; ma sono riescita a scacciarle. — Brava! Dai i calci alla fortuna. Noi siamo ben contente che si attacchino. Cosí le pigliamo; altrimenti sfuggono, e l'assistente non ci lascia sprecare il tempo ad inseguirle. — Ma vedete un po' quanto sangue vi fanno perdere! — osservò Nanna accennando le gambe brune delle fanciulle che grondavano sangue da parecchie ferite. — Che! È il sangue cattivo che se ne va, disse una alzando le spalle. Risparmia una malattia. — Ci si mette sopra un ragnatelo — aggiunse l’altra, — e ristagna subito. In quella giungevano sull'aja. La mondatrice corse in un angolo accanto al fienile, raccolse alcuni ragnateli polverosi, e se li pose sulle ferite, che infatti cessarono di sanguinare. — È vero — pensò Nanna. — Si lascia che le sanguisughe si attacchino soltanto all'ultimo momento prima di smettere il lavoro, cosí non s'ha tempo a perder molto sangue. E poi cos'é un bicchiere di sangue in confronto di una giornata come questa? E si diede a calcolare che, se per quindici giorni di seguito avesse prese soltanto tre sanguisughe ogni giorno, avrebbe guadagnato nove lire; il prezzo di cinque giornate di quel lavoro d'inferno, ed avrebbe potuto lasciare la risaia cinque giorni prima, senza perderci di borsa. E si coricò un po' confortata da quella speranza e, fin dal domani, cominciò ad abbandonare le sue povere gambe, che non avevano sangue di troppo, tutt'altro, ai morsi arrabbiati di quelle bestiole da farmacia. Appena si sentiva addentata, portava la mano alla ferita, ed afferrata la sanguisuga, non piú libera di sfuggirle, la metteva in una boccetta, che teneva nascosta nella rimboccatura dell'abito. Quel giorno ebbe la fortuna di pigliarne cinque, e s’affrettò a cercare i ragnateli per tappare le cinque morsicature. Era contenta, ma si sentiva indebolita, ed aspettava con impazienza la sua scodella di riso e fagioli. Sgraziatamente il sensale che aveva preso l'appalto dei lavori, forniva egli stesso anche il vitto; era una speculazione, e sapeva trarne profitto. Il proprietario pagava due lire al giorno cinquanta mondatrici per trenta giornate; e quaranta centesimi al giorno, pel vitto di ciascuna. Il sensale imprenditore aveva accordato soltanto quaranta mondatrici, alle quali, a forza d'angherie, riesciva a far fare il lavoro di cinquanta, le pagava soltanto una lira e ottanta centesimi al giorno, e quanto al vitto dava loro del riso cotto fino a sfasciarsi, misto a fagioli duri, senz'altro condimento che un po' di sale, ed un pezzo di lardo rancido. Dopo una giornata di quel lavoro da galeotto, quel cibo di cui i galeotti non hanno idea. Nanna non poté ingoiare la minestra. Mangiò un pezzo di pane col formaggio che s'era portato, e si coricò sulla paglia del fienile, dove ben presto la raggiunsero tutte le mondatrici.
Non c'era tempra robusta che reggesse a quella vita. Tutte si facevano di giorno in giorno piú macilente. A vederle tra le nebbie del mattino, avviarsi al lavoro a due, a tre, sfiaccolate, pallide, cogli occhi infossati, le braccia penzoloni, il passo lento, sembravano una processione di fantasmi. E tuttavia, dopo una settimana di lavoro, la domenica si alzarono ancora di buon mattino per andare fino a Novara alla messa, ed a vendere le sanguisughe. Nanna avrebbe amato assai di rimanere dell'altro distesa sulla paglia in quell'inerzia refrigerante. Ma il negozio delle sanguisughe le premeva; ed andava esaurita la sua piccola provvista di companatico. La mamma non le aveva mandato altro; forse non aveva trovato un'occasione. Doveva dunque comperarsi qualche cosa, dacché della minestra che le davano, ben poco poteva mandarne giú. Si rizzò di mala voglia; stirò le membra ingranchite; si mise il vestito della festa che aveva portato in viaggio, prese i zoccoletti in mano, e via colle altre. Entrarono in Novara cantando. I bei damerini nervosi, che si sarebbero eccitati, Dio sa quanto, al vedere il piedino d'una signora sporgere di sotto la gonna, che avrebbero rasentato il manicomio se per caso la loro donna avesse lasciato scorgere la caviglia nello scendere di carrozza, uscirono all'ingresso dei caffè dicendo: — Sono le mondatrici. — E guardarono con indifferenza tutte quelle gambette, nude fino al ginocchio, color di mogano, squamose e dure come di legno. Avevano diciott'anni, povere bimbe! E le loro nudità avariate non ispiravono piú peccati di desiderio. Nanna al ritorno era sfinita; il suo sconforto aumentava ogni giorno. Alla zappatura c'era stato il fratello che le aveva continuato un pochino delle cure a cui s'era avvezza co' suoi. Ma ora si sentiva sola affatto. Nessuno le diceva: — Sei stanca; va a coricarti. Sei indebolita; mangia. Nulla; doveva pensarci da sé, e se ne trovava male. — Mi sembra di esser la figlia di nessuno, — diceva. — Se la mamma mi avesse mandato Gaudenzio, almeno... Almeno! era il piú che potesse desiderare. E quella volta il suo desiderio fu esaudito. Le fanciulle che camminavano innanzi, appena si furono affacciate all'aja tornarono indietro correndo, e tutte sorridenti sussurrarono: — Nanna: il carro! — Dove? — domandò Nanna che non ebbe bisogno d'altre spiegazioni per capire di qual carro dicessero. — Là sull'aja... — risposero le altre. Ella corse innanzi a guardare tutta rossa di gioia. Poi tornò e sussurrò alla sua volta: — Il cavallo è staccato; Gaudenzio dev'essere in cucina. — E le parve di respirar meglio. Ma non osava entrare in casa, né chiamare. Era impaziente di annunciare il suo ritorno, e non sapeva come fare. Disse: — Cantiamo per farci sentire. E si raccolsero in un gruppo fuori dall'aja dietro il cancello, e guardandosi e sorridendo l'una all'altra come se si narrassero una novità, si posero a cantare a squarciagola:
Ieri sera andando a spasso... Dighel no.
Tutti gli uomini della fattoria uscirono dalla stalla, dal fienile, dal porcile, dalla cucina, in calzoni da festa e camicia di bucato. Gaudenzio era con loro. Egli si fece innanzi dondolandosi, col cappello sull'orecchio ridendo e cantando:
Ho incontrato una signora, Dighel no.
E tutti gli altri dietro:
La mi ha ditto d'andar dessora, Andar dessora a far l'amor, Dighel no.
Sgraziatamente la massima parte delle nostre canzoni popolari, non è piú corretta, né piú castigata di cosí. E gli uomini accerchiarono le donne, e tutti insieme continuarono la canzone ridendo ed ammiccando degli occhi, e terminarono con grandi risate, come dopo un divertimento tutto nuovo ed originale. Poi Gaudenzio andò a piantarsi davanti a Nanna colle mani sui fianchi, e dimenando il capo tornò a canticchiare con aria furba: — Ieri sera andando a spasso. Dighel no. — Avete visto i miei di casa? — domandò Nanna. — Li ho visti ieri. La vostra mamma mi ha dato della roba per voi, e vuol sapere se state di buona voglia. — Eh, non troppo — disse Nanna. — Lo sapevo bene io; voi non siete una donna da lavoro — osservò Gaudenzio. Nanna si sentí mortificata, e rispose: — Oh perché? Faccio anch'io quello che fanno le altre. Ma quando servirono la minestra, e Gaudenzio le portò il pane fresco, ed un bel pezzo di frittata di fagioli che le mandava Maddalena, era cosí crucciata, che non ebbe voglia di nulla. Vedeva le altre mangiare e ridere, ed avrebbe voluto far come loro, per mostrare che al lavoro ci resisteva anche lei; ma proprio non poteva. Aveva tanto faticato tutta la settimana, ed aveva mangiato cosí poco e male, che si sentiva come un sacco vuoto. Se ne andò tutta sola sul fienile, si stese sulla paglia, e si mise a piangere, a piangere, finché s'addormentò.
Fu un sonno affannoso, tribolato da sogni. Le pareva d'essere una delle montanare di Boca o Maggiora di cui aveva udito tante volte vantare la robustezza meravigliosa, i bei colori, l'umore sereno, la laboriosità assidua, ed i ricciolini castani intorno alla fronte. E nel sogno scendeva dalla montagna per una stradicciuola ripida, portando sul dorso una grande gerla colma di sassi, e conduceva l'asino carico col mezzo di una corda, che s'era legata al braccio; ed intanto per tener conto del tempo, faceva calze camminando. Gaudenzio aveva tante volte descritta quella triplice fatica delle montanare, che Nanna l'aveva sempre in mente. Ma le pareva che l'asino si facesse tirare, e desse strappi alla corda, per modo che le sfuggivano dal ferro le maglie della calza. E mentre era intenta a riprenderle stando china, troppo china sul lavoro, tutta la ghiaia della gerla le si rovesciava dinanzi passandole sopra il capo, e l'asino impaurito si dava a fuggire trascinandola dietro pel braccio, e la traeva via via traverso campi e prati, ed in quella corsa tormentosa udiva da lontano la voce schernitrice di Gaudenzio gridarle: — Lo sapevo bene, io. Voi non siete una donna da lavoro. — E rideva tanto forte che Nanna si svegliò. Suonavano infatti alte risate giú nell'aja: ma Gaudenzio, per quella volta tanto, era innocente dello scherno di cui l'accusava il sogno. Era tardi nel pomeriggio, e si ballava coll'organo. Nanna sorrise all'idea di danzare con Gaudenzio, e s'alzò per discendere. Ma aveva le vertigini; le pareva che il capo le pesasse piú del solito, e tutto le si movesse d'intorno. Dovette attaccarsi alla sbarra della scala nello scendere, per non andar a rotoli. Nemmeno quando aveva avuto la febbre si era mai sentita cosí male. Le fischiavano gli orecchi, e le doleva tutto il capo pulseggiando di dentro, come se le picchiassero un martellino sopra il cervello indolorito. Era uno spasimo acuto e profondo che le rispondeva negli occhi, e le impediva di alzar le palpebre. Scoraggiata di sentirsi a quel modo, andò ad accoccolarsi in un angolo del cortile, e stette a guardare traverso le ciglia socchiuse. Finita quella polka, Gaudenzio la vide; si accostò col suo cappello sull'orecchio e, porgendole il gomito, le accennò del capo e disse: — Andiamo, su! Altro che su. Avrebbe voluto volare, povera Nanna. Puntò le mani sulle ginocchia e fece per alzarsi. Ma pareva che fosse tutta di piombo. Le sue membra pesavano tanto, che non ebbe la forza di moverle. — Non posso — disse con un sospiro che pareva un gemito. — Ho tanto male! — Ah, povero me! Che donna! avete sempre male voi — rispose il carrettiere, cui la salute prosperosa ed una buona dose d'egoismo non avevano mai permesso di comprendere una sofferenza. E girando sui tacchi, si diresse all'estremità opposta dell'aja per pigliare un'altra ballerina. Nanna si sentí avvilita. Egli la disprezzava, ed apprezzerebbe piú di lei la prima venuta, che potesse girare due minuti in tempo di valzer; il suo amor proprio, l'amore, la paura, la gelosia, le diedero una forza insperata. Si rizzò d'un balzo, Prese gli zoccoli in mano, ed in due salti ebbe raggiunto Gaudenzio a metà dell'aja. — Eh! Gaudenzio — gli gridò ridendo ed arrotondando il braccio cogli zoccoletti in mano, mentre dimenava i fianchi in misura come muto invito alla danza. — Ma se avete male! — disse il carrettiere. — Che! L'ho detto per celia. Sto benone. Non sono una damina io, da ammalarmi per un po' di fatica! — La cera ce l'avete brutta però — osservò quell'inurbano galante guardandola in viso. E con questo complimento, le afferrò la destra, le cinse la vita col braccio, le piantò la mano poderosa nella schiena, e cominciò a danzare nel modo sconcio dei contadini, colla persona stretta a quella di lei, incrociando le gambe, sfiorandole il viso col viso, contorcendole il dorso, come se volesse slogarle le giunture. E Nanna gli posava languidamente sulla spalla la mano sinistra, cogli zoccoletti pendenti come una pezzuola profumata, e sentiva nel cuore il contraccolpo di quelle strette, di quegli sfioramenti, di quel fiato ansimante e caldo che le soffiava nel collo. Ma intanto il martello le picchiava forte forte nella testa, e quando alle ultime battute della musica Gaudenzio le fece fare un turbinio di giri a rovescio, si sentí mulinare dentro il cervello come un arcolaio, non vide piú nulla, le parve di star sospesa in diagonale tra cielo e terra, e disse aggrappandosi al ballerino: — Tenetemi che vado giú — e credendo di cadere insieme a lui, si coperse gli occhi colla mano. Quello smarrimento durò appena pochi secondi. Era un capogiro. Gaudenzio la resse e, riaprendo gli occhi poco dopo, ella si trovò ancora appoggiata alla spalla di lui in mezzo all'aja. Se ne staccò senza guardarlo, senza parlare, ed andò a sedere sulla trave. E là il suo male crebbe ancora ed ancora. Il cervello continuava a turbinare di dentro; pareva che durante il ballo avesse preso lo slancio come una trottola, e poi seguitasse a girare. Nanna non ne poteva piú. Quasi involontariamente si chinò sulla panca, si pose un braccio sotto il capo, e rimase adagiata cosí, gemendo sommesso. Piú tardi Gaudenzio le si accostò, e le disse un po' sbigottito: — Ebbene Nanna? Cosa c'è? Ella era sfinita. Non poteva parlare perché si sentiva il pianto alla gola. Gli rispose con un gemito. — State tanto male? — rispose il carrettiere. — Credo d'aver la febbre, ma non dite nulla ai miei. — O, per me, ora non vado a casa. Ho un carico di legna da vendere; non so quando vedrò Maddalena. — Meglio cosí — disse Nanna. — Meglio cosí. Ma intanto piangeva, ed era profondamente sconfortata dal sentirsi cosí abbandonata dai suoi. Le donne guardarono lei, poi si guardarono tra loro con aria misteriosa crollando il capo. Poi una s'accostò alla piú anziana, che stava osservando Nanna, coll'aria di chi ne sa piú degli altri, e le sussurrò: — È la cefalite, vero? La donna chinò il capo due o tre volte stringendo le labbra ed allargando gli occhi, poi disse: — Sicuro; è proprio la cefalite, e buona, se l'è presa. — E cosí? — tornò a domandarle la compagna a mezza voce come avrebbe consultato un medico. — Ma! Ci sarebbe la gallina nera. — E parlarono piano, si concertarono tra loro, poi la medichessa si accostò a Nanna e le disse: — Nanna, hai la febbre alla testa, e potrebbe diventare una cosa seria. Bisogna aver pazienza; se vuoi guarire devi fare la spesa d'una gallina nera. La massaia ne ha parecchie. Nanna mise un lungo sospiro. Pensava: «Ecco, ci si rimette la salute per guadagnare pochi quattrini, poi ci si rimettono i quattrini per riguadagnar la salute». Ma non disse nulla. Cavò fuori la pezzuola, e ne presentò alla medichessa l'angolo in cui aveva fatto un nodo. La donna era avvezza a quella maniera di borsellino. Sciolse il nodo, ne trasse il denaro delle sanguisughe che Nanna ci aveva risposto, e s'avviò al pollaio, dicendo alle altre mondatrici: — Toglietele gli spilloni, e spettinatela. Poco dopo la medichessa e la compagna che l'aveva seguita tornarono tenendo ciascuna per un'ala ed una gamba la povera vittima che chiocciava paurosamente. Nanna aveva già deposto l'argento, ed aveva i capelli raccolti sulla nuca. — Sta pronta, rizzati — disse la medichessa impugnando arditamente un gran coltello da cucina. S'udí un gracidare alto e disperato, e tosto la povera bestia, squartata dal collo in giú, fu applicata al capo indolorito di Nanna, che si sentí scorrere sul volto, sul collo, sugli abiti, una pioggia calda di sangue, d'umori, di liquidi viscerali d’ogni tinta ed odore, mentre il collo della bestia palpitante ancora, le si agitava dinanzi agli occhi inondati, nello spasimo dell'angoscia. Poi le donne accompagnarono la malata reggendola su per la scala, e la fecero coricare sulla paglia con quella cuffia straordinaria.
Durante la notte Nanna ebbe una febbre violenta; la prese il delirio. Aveva il volto infiammato, gli occhi iniettati di sangue, e parlava concitato, e gestiva convulsamente. Ed appena fu giorno bisognò porla sul carro della fattoria e condurla all'ospedale di Novara, mentre Gaudenzio scriveva una lettera per avvertire i parenti. Quando Maddalena giunse all'ospedale, si spaventò di non trovare la figliola nella crociera comune. — Ha il tifo — le disse la monaca — il medico l'ha fatta trasportare nel compartimento delle malattie contagiose. Né quella settimana, né l'altra, né la terza, Nanna riconobbe la madre. Dopo quattro settimane soltanto cominciò a ricuperare i sensi ed a migliorare. Ma al suo arrivo all'ospedale aveva il capo in uno stato spaventevole. A stento ed a forza di spasimi s'era potuto toglierle il cadavere putrefatto della gallina nera. Ma il sangue e gli umori s'erano appiccicati ai capelli, ed avevano formato una crosta; quando le infermiere avevano tentato di staccarla, l'ammalata aveva messo tali grida, che s'era dovuto smettere. Poi le si era applicato il ghiaccio continuamente durante la malattia; e l'umidità, e l'ardore febbrile del capo, favorirono la putrefazione di quelle sostanze organiche di cui i capelli erano impregnati. Ed appena lo stato della malata permise di liberarla da quella calotta fetida e dolorosa, la capigliatura si staccò con essa; si sviluppò una malattia al cuoio capillare ed il povero capo denudato rimase coperto da pustole purulenti. Fu una malattia lunga lunga ed una cura dolorosa. E dopo dei mesi, quando tutto fu finito, la bella testa bionda di Nanna era spelata e lucida come un ginocchio. Questa volta il suo ritorno dall'ospedale fu triste assai. Nulla rallegrava la sua convalescenza ritardata. Non si ammirava nelle vetrine dei negozi, vi si guardava sospirando, colla pezzuola ravvolta intorno al capo, e rimpiangeva la sua bellezza perduta. A casa l'aspettavano altre miserie, altri guai. Il sensale che l'aveva accordata per la mondatura, era fuggito colle caparre, ed i denari delle giornate, lasciando i poveri giornalieri senza compenso, dopo tante fatiche. La perdita di un po' di denaro su cui s'era fatto conto, due braccia di meno al lavoro per sei mesi, un'ammalata da visitare, ed a cui provvedere qualche piccola delicatura da bere o qualche arancio, ed un cruccio amaro nel cuore, pesano gravi sopra una povera famiglia. Il San Martino era passato da qualche tempo; il proprietario faceva frequenti visite alla cascina, ed i quattrini della pigione non c'erano. Una sera Maddalena disse al marito: — Oggi, mentre eri al torchio a premere quella poca vinaccia, è venuto ancora il segretario del padrone. — Vuole il denaro eh? — sospirò Martino. — Vuole il denaro. Dice che aspetterà fino a domenica e poi farà i suoi passi. — Ma! — tornò a sospirare il pover'uomo. — Poi guardò Nanna a lungo con un senso di pietà, e finí col dire: — Una risorsa ci sarebbe per uscire da questo ginepraio. — Una risorsa? — domandò Maddalena. — Ma sí, — ripigliò Martino. — C'è là tutta quella piuma... cosa vuoi che ne facciamo ora? — ed accennò col capo la ragazza. Nanna si sentí una stretta al cuore. La sua piuma, il ricco prodotto delle sue oche, il suo letto nuziale, non si sapeva piú che farne. Ella aveva sperato fin allora che i capelli tornerebbero. Quella parola del babbo le parve crudele; e con tutta l'acrimonia del suo cuore esacerbato pensò: — Ecco, desidera ch'io rimanga un mostro, che non mi mariti piú, per vendere la piuma —. E le parve che quel poveruomo le facesse un torto. Maddalena aveva guardato anch'essa la figliuola, magra, angolosa, colla pezzuola intorno al capo, ed aveva fatto greppo pensando alla bella fanciulla dell'anno innanzi, ed ai bei capelli biondi in cui aveva puntati per la prima volta gli spilloni d'argento. E commentando forte il suo pensiero esclamò: — Ma! Chi l'avrebbe detto! — Anche lei trova che sono rovinata per sempre — pensò Nanna ed anche la mamma le parve crudele. E nascondendosi il volto fra le mani scoppiò in un pianto iroso e convulso; strappava la pezzuola coi denti, e picchiava i piedi a terra, e diceva dentro di sé: — Vedono il male e non fanno nulla per trovare un rimedio; non mi vogliono bene. I vecchi dissero: — Bisogna lasciarla sfogare — e non parlarono piú della piuma. Ma l'indomani Maddalena ne portò un campione sul mercato, e la domenica Martino andò a Novara a pagar la pigione coi denari del letto nuziale di Nanna. — Anche questa è fatta — disse alla moglie rientrando in casa. — Quando ci penso, mi rincresce di quella ragazza che piange, e di quella bella piuma. Ma tanto, sarebbe rimasta là per le tignole. Nanna, al modo che è ridotta, non si mariterà piú. — Pazienza! — disse Maddalena. — Quel che Dio vuole non è mai troppo!—. |
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