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Francesco Maria Piave I due Foscari IntraText CT - Lettura del testo |
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ATTO SECONDO Scena prima. Jacopo Foscari, Lucrezia, poi il Doge e Loredano
Le prigioni di Stato. Poca luce entra da uno spiraglio praticato nell'alto del muro. Alla destra un'angusta scala per cui si ascende al palazzo.
JACOPO: Notte! Perpetua notte che qui regni! Siccome agli occhi il giorno, potessi almen celare al pensier mio il fine disperato che m'aspetta! Tôrmi potessi alla costor vendetta! Ma, o ciel! . . . che mai vegg'io! . . . (S'alza spaventato) Sorgon di terra mille e mille spettri! Han irto crin . . . guardi feroci, ardenti! A sé mi chiaman essi! . . . Uno s'avanza! . . . ha gigantesche forme! Il suo reciso teschio ferocemente colla manca porta! . . . A me lo addita . . . e colla destra mano mi getta in volto il sangue che ne cola! Ah! Lo ravviso! . . . è desso . . . è Carmagnola! Non maledirmi, o prode, se son del Doge il figlio; de'Dieci fu il Consiglio che a morte ti dannò! Ah! Me pure sol per frode vedi quaggiù dannato, e il padre sventurato difendermi non può . . . Cessa . . . la vista orribile più sostener non so. (Cade boccone per terra)
(Lucrezia Contarini scende dalla scala)
LUCREZIA: Ah, sposo mio! . . . che vedo? Me l'hanno forse ucciso i maledetti, e per maggiore qui tratta a contemplar la salma? Ah, sposo mio! (Gli palpa il cuore) Vive ancor! Quale freddo sudore! Vieni, amico, ti posa sul mio cor.
JACOPO: (sempre delirando) Verrò . . .
LUCREZIA: Che di'?
JACOPO: M'attendi, orrendo spettro . . .
LUCREZIA: Son io . . .
JACOPO: Che vuoi? . . . Vendetta?
LUCREZIA: Non riconosci la sposa tua?
JACOPO: Non è vero! . . . (Lucrezia lo abbraccia con trasporto) Ah, sei tu?
LUCREZIA: Ah, ti posa sul mio cor.
JACOPO: Fia vero! Fra le tue braccia ancor? Respiro! Fu dunque sogno . . . orrendo sogno il mio! Il carnefice attende? L'estremo addio vieni ora a darmi?
LUCREZIA: (piangendo) No.
JACOPO: E i figli miei, mio padre? Saran dischiuse loro queste porte, pria che il sonno mi copra della morte?
LUCREZIA: No, non morrai; ché i perfidi peggiore d'ogni morte, a noi, clementi, serbano più orribile una sorte. Tu viver dêi morendo nel prisco esilio orrendo . . . Noi desolati in lagrime dovremo qui languir.
JACOPO: Oh, ben dicesti! All'esule più crudo della morte da'suoi lontano è il vivere! O figli, o mia consorte! Ascondimi quel pianto . . . Su questo core affranto mi piomban le tue lagrime a crescerne il soffrir. (S'ode una lontana musica di voci e suoni)
VOCI: Tutta è calma la laguna; Voga, voga, gondolier.
JACOPO: Quale suono?
VOCI: Batti l'onda e la fortuna ti secondi, o gondolier.
LUCREZIA: È il gondoliero, che pel liquido sentiero provar debbe il suo valor.
JACOPO: Là si ride, qui si muor. Maledetto chi mi toglie a' miei cari, al suol natìo; sul suo capo piombi Iddio l'abominio e il disonor. Speranza dolce ancora non m'abbandona il core: Un giorno il mio dolore con te dividerò. Vicino a chi s'adora men crude son le pene; perduto ogn'altro bene, dell'amor tuo vivrò.
LUCREZIA: Speranza dolce ancora non m'abbandona il core, l'esilio ed il dolore con te dividerò. Vicino a chi s'adora men crude son le pene: perduto ogn'altro bene, dell'amor tuo vivrò, ecc.
(Il Doge, avvolto in ampio e nero mantello, entra nel carcere, preceduto da un servo con fiaccola, che depone e parte)
JACOPO e LUCREZIA (correndogli incontro) Ah, padre!
DOGE: Figlio! Nuora!
JACOPO: Sei tu?
LUCREZIA: Sei tu?
DOGE: Son io. Volate al seno mio.
TUTTI: Provo una gioia ancor!
DOGE: Padre ti sono ancora, lo credi a questo pianto; il volto mio soltanto fingea per te rigor.
JACOPO: Tu m'ami?
DOGE: Sì.
JACOPO: Oh contento! Ripeti il caro accento.
DOGE: T'amo, sì, t'amo, o misero. Il Doge qui non sono.
JACOPO: Come è soave all'anima della tua voce il suono!
DOGE: Oh figli, sento battere Il vostro sul mio cor!
JACOPO e LUCREZIA: Così furtiva palpita la gioia nel dolor!
JACOPO: Nel tuo paterno amplesso io scordo ogni dolore. Mi benedici adesso, dà forza a questo core, e il pane dell'esilio men duro fia per me . . . Questo innocente figlio trovi un conforto in te.
DOGE: Abbi l'amplesso estremo d'un genitor cadente; il giudice supremo protegga l'innocente . . . Dopo il terreno esilio giustizia eterna v'è. Al suo cospetto, o figlio, comparirai con me.
LUCREZIA: (Di questo affanno orrendo farai vendetta, oh cielo, quando nel dì tremendo si squarcerà ogni ciglio il giusto, il reo qual è!) Dopo il terreno esilio, sposo, sarò con te. (Restano abbracciati piangendo; il Doge si scuote)
DOGE: Addio . . .
JACOPO e LUCREZIA Parti?
DOGE: Conviene.
JACOPO: Mi lasci in queste pene?
DOGE: Il deggio.
LUCREZIA: Attendi.
JACOPO: Ascolta. Ti rivedrò?
DOGE: Una volta . . . Ma il Doge vi sarà!
JACOPO e LUCREZIA E il padre?
DOGE: Soffrirà. S'appressa l'ora . . . Addio . . .
JACOPO: Ciel! . . . chi m'aita?
(Entra Loredano preceduto dal Fante del Consiglio e da quattro custodi con fiaccole)
LOREDANO: (dalla soglia) Io.
LUCREZIA: Chi? Tu!
JACOPO: Oh ciel!
DOGE: Loredano!
LUCREZIA: Ne irridi, anco, inumano?
LOREDANO: (freddamente a Jacopo) Raccolto è già il Consiglio; vieni, di là al naviglio che dee tradurti a Creta . . . Andrai . . .
LUCREZIA: Io pur.
LOREDANO: Tel vieta de'Dieci la sentenza.
DOGE: (ironico) Degno di te è il messagio!
LOREDANO: Se vecchio sei, sii saggio. (ai custodi) S'affretti la partenza.
JACOPO e LUCREZIA: Padre, un amplesso ancora.
DOGE: Figli . . .
LOREDANO: Varcata è l'ora.
JACOPO e LUCREZIA: (a Loredano) Ah sì, il tempio che mai non s'arresta rechi pure a te un'ora fatale, e l'affanno che m'ange mortale, più tremendo ricada su te. Il rimorso in quell'ora funesta ti tormenti, o crudele, per me.
DOGE: (a Jacopo e Lucrezia) Deh, frenate quest'ira funesta; l'inveire, o infelice, non vale! S'eseguisca il decreto fatale . . . Sparve il padre, ora il Doge sol v'è. La giustizia qui mai non s'arresta: Obbedire a sue leggi si de'.
LOREDANO: (da sé, guardandoli con disprezzo) (Empia schiatta al mio sangue funesta, a difenderti un Doge non vale; per te giunse alfin l'ora fatale sospirata cotanto da me) La Giustizia qui mai non s'arresta, obbedire a sue leggi si de'.
(Jacopo parte fra i custodi preceduto da Loredano, e seguito lentamente dal Doge, che si appoggia a Lucrezia)
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