QUELLO CHE GUADAGNANO
Eppure
la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz'aria, senza luce,
senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d'immondizie, respirando
miasmi e bevendo un'acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia,
oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella
sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le
colline: onde il giorno di Ognissanti, quando da Napoli, tutta la gente buona
porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di
fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi l'ha intesa gentilmente
esclamare: o Gesù, vurria murì, pe sta ccà!
Questo
popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei
carri, che si adorna di pennacchietti multicolori nei giorni di festa, che
porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomodoro sopra un sacco di
farina, per ottenere un effetto pittorico e che ha creato un monumento di
ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di
bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco
dell'acquaiuolo.
Questo
popolo che ama la musica e la fa, che canta così amorosamente e
malinconiosamente, tanto che le sue canzoni dànno uno struggimento al core e
sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una
sentimentalità espansiva, che si diffonde nell'armonia musicale.
Non
è dunque una razza di animali, che si compiace del suo fango; non è dunque una
razza inferiore che presceglie l'orrido fra il brutto e cerca volenterosa il
sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl'impongono; saprebbe apprezzare
la civiltà, visto che quella pochina elargitagli, se l'ha subito assimilata;
meriterebbe di esser felice.
Abita
laggiù, per forza. È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa,
così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità
privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell'ozioso, badate
bene, ma la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno.
Questo
lavoratore, quest'operaio non può pagare un affitto di casa, che superi le
quindici lire il mese: e deve essere un operaio fortunato, vi è chi ne paga
dieci, chi ne paga sette, chi ne paga cinque; questi ultimi formano la grande
massa del popolo. Anni fa, una compagnia cooperativa edificò, verso
Capodimonte, un falansterio di case operaie, chiare, pulite, strettine, ma
infine igieniche: per quanto restringesse i prezzi, non potette dare i suoi
appartamentini, a meno di trentaquattro lire al mese.
Nessuno
operaio vi andò.
Vi
andarono degli impiegati con le famiglie, qualche pensionato, gli sposetti
poveri, insomma una mezza borghesia che vuol nascondere la sua miseria e avere
la scaletta di marmo.
Quel
grandissimo edificio resta lì a far prova della miseria napoletana: anzi, gli
scrupolosi e borghesi che vi abitano, punti nel loro presuntuoso amor proprio, da
coloro che li accusavano di abitare le case operaie, hanno fatto dipingere a
grandi caratteri questa scritta sull'ingresso maggiore: le case della
Cooperativa non sono case operaie. Iscrizione crudele e superba.
Trentaquattro
lire? Queste trentaquattro lire un lavoratore napoletano le guadagna in un
mese: chi porta una lira di giornata a casa, si stima felice.
Le
mercedi sono scarsissime, in quasi tutte le professioni, in tutt'i mestieri.
Napoli è il paese dove meno costa l'opera tipografica; tutti lo sanno: gli
operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che
guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli,
tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e
vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare
neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati
nella medesima misura; una lira, venticinque soldi, al più, trenta soldi al
giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti
guadagnano novanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di
Napoli, è la meglio vestita d'Italia: che a Napoli si fanno le più belle scarpe
e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i migliori guanti.
Altri mestieri inferiori stabiliscono la mercede a settantacinque centesimi, a
dodici soldi, a dieci soldi. Per questo essi non possono pagare più di cinque,
sette, dieci lire il mese di pigione e come la miseria incombe, la donna, la
moglie, la madre, tutte quelle che hanno già molto partorito, che hanno
allattato, tutte quelle che dovrebbero lavorare in casa, cercano lavoro, fuori.
Fortunate
quelle che trovano un posto alla Fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e
arrivano ad allogarsi, come sarte, come modiste, come fioraie! La mercede è
miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese; pure sembra loro
fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile,
si dà alla domesticità.
La
serva napoletana si alloga per dieci lire il mese, senza pranzo: alla mattina
fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni,
scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi
di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e
alla sera si trascina a casa sua, come un'ombra affranta. Ve ne sono di quelle
che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l'uno e corrono continuamente da una
casa all'altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta
una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque
lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica,
talvolta non si svestiva, per addormentarsi subito.
Queste
serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza, ma sono
esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno
trent'anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno
i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni,
un grembiule sei mesi.
Non
si lamentano, non piangono: vanno a morire, prima di quarant'anni,
all'ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante
ne avrà portate via il colera!
E
tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici,
stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di
seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le
intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti
o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi,
quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno
economia e si maritano.
Sono
brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi
tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che
sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche
sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di
bellezza e di gioventù, furono, amate, si sono maritate: dopo, il marito e la
miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono
abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre
madri, temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete,
agitate, mentre servono.
Me
ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Il
bimbo aveva già due anni ed essa gli dava ancora il latte, non aveva altro da
dargli da mangiare: questo bimbetto l'aspettava, ogni sera, seduto sullo
scalino del basso. Diceva il medico dell'assistenza pubblica: «Levagli
il latte, chè ti si ammala.» Ella chinava il capo: non poteva levargli il
latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una
cucina, e si lamentava, sottovoce: «figlio mio, figlio mio, io t'aveva da
accidere, io t'aveva da fa murì! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e
chi m'aspetta cchiù, la sera, mocc'a porta?»
Il
lavoro dei fanciulli? Ahimè, le madri sono molto contente, quando un cocchiere
signorile vuol prendere per mozzo un fanciullo di dodici anni, dandogli solo da
mangiare; sono molto contente, quando un mastro di bottega lo piglia,
facendolo lavorare come un cane e dandogli solo la minestra, la sera; la
pietosa madre gli dà un soldo per la colazione, la mattina.
Le
sarte, le modiste, le fioraie, le bustaie, prendono per apprendiste delle
fanciullette dodicenni, che sono, in realtà, delle piccole serve e che
guadagnano cinque soldi la settimana. Ma, per lo più, queste creature restano a
casa o nella strada, tutto il giorno.
Nelle
campagne, il figlio è una gioia, è un soccorso, è una sorgente di agiatezza; in
Napoli rappresenta una cura di più, una pena materna, una sorgente di lagrime e
di fame.
Ascoltate
un poco, quando una operaia napoletana nomina i suoi figli. Dice: le
creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna
pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente,
la intensità della miseria napoletana.
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