[L'Inghilterra si separa dalla Chiesa
romana per cagione del divorzio di Enrico VIII]
Ma in questo anno, in luogo di racquistar
la Germania, perdette il pontefice l'ubedienza d'Inghilterra, per aver in una
causa proceduto piú con colera e con affetto, che con la prudenza necessaria a'
gran maneggi. Fu l'accidente di grand'importanza e di maggiore consequenza;
quale per narrare distintamente, bisogna comminciare dalle prime cause donde
ebbe origine.
Era maritata al re Enrico VIII
d'Inghilterra Catarina, infante di Spagna, sorella della madre di Carlo
imperatore. Questa era stata in primo matrimonio moglie di Arturo, prencipe di
Gales, fratello maggiore di Enrico; doppo la morte del quale con dispensa di
papa Giulio II, il padre loro la diede in matrimonio ad Enrico VIII, rimasto
successore. Questa regina molte volte era stata gravida, e sempre aveva
partorito overo aborto, overo creatura di breve vita, se non una sola
figliuola. Enrico, o per ira conceputa contra l'imperatore, o per desiderio di
figliuoli, o per qual causa si sia, si lasciò entrare nella mente scrupulo che
il matrimonio non fosse valido, e conferito questo con i suoi vescovi, si
separò da se stesso dal congresso della moglie. I vescovi fecero ufficio con la
regina che si contentasse di divorzio, dicendo che la dispensa pontificia non
era valida, né vera. La regina non volse dar orrecchie; anzi di questo ebbe
ricorso al papa, al quale il re ancora mandò a ricchiedere il repudio. Il papa,
che si ritrovava ancora ritirato in Orvieto e sperava buone condizioni per le
cose sue, se da Francia et Inghilterra fossero continuati i favori che tuttavia
gli prestavano col molestar l'imperatore nel regno di Napoli, mandò in
Inghilterra il cardinal Campeggio, delegando a lui et al cardinal Eboracense
insieme la causa. Da questi e da Roma fu data speranza al re che in fine
sarebbe stato giudicato a suo favore; anzi, che per facilitare la risoluzione,
acciò le solennità del giudicio non portassero la causa in longo, fu ancora
formato il breve, nel quale si dicchiarava libero da quel matrimonio con
clausule le piú ample che fossero mai poste in alcuna bolla pontificia, e
mandato in Inghilterra il cardinale con ordine di presentarlo, quando fossero
fatte alcune poche prove, che certo era doversi facilmente fare: e questo fu
1528. Ma poiché Clemente giudicò piú a proposito per effettuare i dissegni suoi
sopra Fiorenza, come al suo luogo si è narrato, di congiongersi
coll'imperatore, che perseverare nella amicizia di Francia et Inghilterra, del
1529 mandò Francesco Campana al Campeggio con ordine che abbrugiasse il breve e
procedesse ritenutamente nella causa. Campeggio incomminciò prima a portar il
negozio in longo, e poi a metter difficoltà nell'essecuzione delle promesse
fatte al re; onde egli, tenendo per fermo la collusione del giudice con gli
avversarii suoi, mandò a consultar la causa sua nelle università d'Italia,
Germania e Francia, dove trovò teologi parte contrarii, parte favorevoli alla
pretensione sua. La maggior parte de' parisini furono da quella parte, e fu
anco creduto da alcuni che ciò avessero fatto persuasi piú da' doni del re, che
dalla ragione.
Ma il pontefice, o per gratificare Cesare,
o perché temesse che in Inghilterra, per opera del cardinale Eboracense, potesse
nascer qualche atto non secondo la mente sua, e per dar anco occasione al
Campeggio di partirsi, avvocò la causa a sé. Il re, impaziente della longhezza,
o conosciute le arti, o per qual altra causa si fosse, dicchiarato il divorzio
con la moglie, si maritò in Anna Bolena, che fu nell'anno 1533; però continuava
la causa inanzi al pontefice, nella quale egli era risoluto di proceder
lentamente, per dar sodisfazzione all'imperatore e non offender il re. Perilché
si trattavano piú tosto articoli che il merito della causa. E si fermò la
disputa nell'articolo degli attentati, nel quale sentenziò il pontefice contra
il re: prononciando che non gli fosse stato lecito di propria autorità, senza
il giudice ecclesiastico, separarsi dal commercio congiugale della moglie. La
qual cosa udita dal re nel principio di quest'anno 1534, levò l'ubedienza al
pontefice, commandando a tutti i suoi di non portar danari a Roma e di non
pagar il solito danaro di san Pietro. Questo turbò grandissimamente la corte
romana e quotidianamente si pensava di porgergli qualche rimedio. Pensavano di
proceder contra il re con censure e con interdire a tutte le nazioni cristiane
il commercio con Inghilterra. Ma piacque piú il conseglio moderato di andar
temporeggiando col re, e per mezo del re di Francia far ufficio di qualche
componimento. Il re Francesco accettò il carico e mandò a Roma il vescovo di
Parigi per negoziare col pontefice la composizione: nondimeno tuttavia in Roma
si procedeva nella causa, lentamente, però, e con risoluzione di non venir a
censure, se Cesare non procedeva prima o insieme con le armi. Avevano diviso la
causa in 23 articoli, e trattavano allora se il prencipe Arturo aveva avuto
congionzione carnale con la regina Catarina; et in questo si consumò sino
passata la meza quadragesima, quando alli 19 di marzo andò nuova che in
Inghilterra era stato publicato un libello famoso contra il pontefice e tutta
la corte romana et era ancora stata fatta una comedia in presenzia del re e di
tutta la corte in grandissimo vituperio et opprobrio contra il papa e tutti i
cardinali in particolare. Perilché accesa la bile in tutti, si precipitò alla
sentenza, la quale fu prononciata in consistorio li 24 dello stesso mese: che
il matrimonio tra Enrico e la regina Catarina era valido et egli era tenuto
averla per moglie, e che non lo facendo, fosse scommunicato.
Fu il pontefice presto mal contento della
precipitazione usata. Perché 6 giorni dopo arrivarono lettere del re di
Francia, che quello d'Inghilterra si contentava d'accettare la sentenza sopra
gli attentati e render l'ubedienza, con questo che i cardinali sospetti a lui
non s'intromettessero nella causa e si mandasse in Cambrai persone non sospette
per pigliare l'informazione, e già aveva inviato il re i procuratori suoi per
intervenire nella causa in Roma. Per questo il pontefice andava pensando
qualche pretesto con quale poteva sospendere la sentenza precipitata e ritornar
in piedi la causa.
Ma Enrico, subito veduta la sentenza,
disse importare poco, perché il papa sarebbe vescovo di Roma, et egli unico
padrone del suo regno; che l'averebbe fatta al modo antico della Chiesa
orientale, non restando d'esser buon cristiano, né lasciando introdurre nel suo
regno l'eresia luterana o altra; e cosí esseguí. Publicò un editto dove si
dichiarò capo della Chiesa anglicana; pose pena capitale a chi dicesse che il
pontefice romano avesse alcun'autorità in Inghilterra; scacciò il collettore
del danaro di san Pietro, e fece approvare tutte queste cose dal parlamento,
dove anco fu determinato che tutti i vescovati d'Inghilterra fossero conferiti
all'arcivescovo Cantuariense, senza trattar niente con Roma, e che dal clero
fosse pagato al re 150 mila lire sterlinghe all'anno per defensione del regno
contra qualonque.
Questa azzione del re fu variamente
sentita: altri la riputavano prudente, che si fosse liberato dalla soggezzione
romana senza nissuna novità nelle cose di religione e senza metter in pericolo
di sedizione i suoi popoli e senza rimettersi al concilio, cosa che si vedeva
difficile da poter effettuare e pericolosa anco a lui, non sapendosi vedere
come un concilio composto di persone ecclesiastiche non fosse sempre per
sostentare la potenzia pontificia, essendo quella il sostentamento dell'ordine
loro; poiché quello, col pontificato, è sopraposto ad ogni re et imperatore,
che senza quello bisogna che resti soggetto, non essendovi altro ecclesiastico
che abbia principato con superiorità, se non il pontefice romano. Ma la corte
romana difendeva che non si poteva dire non esser fatta mutazione nella
religione, essendo mutato il primo e principale articolo romano, che è la
superiorità del pontifice, e dover nascere le medesime sedizioni per questo
solo che per tutti gli altri. Il che anco l'evento comprobò, essendo stato
necessitato il re, per conservazione dell'editto suo, di proceder ad
essecuzioni severe contra persone del suo regno, amate e stimate da lui. Non si
può esplicar il dispiacer sentito in Roma e da tutto l'ordine ecclesiastico per
l'alienazione d'un tanto regno dalla soggezzione pontificia, e diede materia
per far conoscer la imbecillità delle cose umane, nelle quali il piú delle
volte s'incorre in estremi detrimenti, donde furono prima ricevuti supremi
beneficii. Imperoché per le dispense matrimoniali e per le sentenze di
divorzio, cosí concesse, come negate, il pontificato romano in tempi passati ha
molto acquistato, facendo ombra col nome di vicario di Cristo a' prencipi, a'
quali metteva conto con qualche matrimonio incesto, o col discioglier uno per
contraerne un altro, unir al suo qualche altro prencipato, o sopire raggioni di
diversi pretendenti, restringendosi per ciò con loro et interessando la loro
potestà a defender quell'autorità, senza la quale le azzioni loro sarebbono
state dannate et impedite; anzi, interessando non quei prencipi soli, ma tutta
la posterità loro per sostentamento della legitimità de' suoi natali: se ben
forsi l'infortunio nato quella volta si potrebbe ascriver alla precipitazione
di Clemente, che non seppe maneggiar in questo caso la sua autorità, e che, se
a Dio fosse piacciuto lasciarli in questo fatto l'uso della solita prudenza,
poteva far grand'acquisto, dove fece molta perdita.
|