[I prelati in Trento s'annoiano e si
turbano]
Nel fine di maggio erano gionti in Trento
20 vescovi, 5 generali et un auditor di rota, tutti già molto stanchi
dall'aspettare, i quali lodavano gli altri, che non essendosi curati d'esser
fretolosi, aspettavano di vedere occasione piú raggionevole di partire da casa:
sí come con qualche loro disgusto erano chiamati corrivi da quelli che non
s'erano mossi cosí facilmente. Dimandavano però a legati abilitazione di poter
andare 15 o 20 giorni a Venezia, a Milano o altrove per fuggire le incommodità
di Trento, pretendendo o indisposizione, o necessità di vestirsi, o altri
rispetti. Ma i legati, conoscendo quanto ciò importasse alla reputazione del
concilio, gli trattenevano, parte con dire che non avevano facoltà di concedere
la licenza e parte con dar speranza che fra pochi giorni s'averebbe dato
principio. L'ambasciatore cesareo ritornò all'ambasciaria sua a Venezia, sotto
pretesto d'indisposizione, avendo lasciato i legati dubii se fosse con commissione
di Cesare con qualche artificio, o pur per stanchezza di star in ocio con
incommodità: promesse presto ritorno, aggiongendo che fra tanto restavano gli
ambasciatori del re de' Romani per aiutare il servizio divino, e nondimeno che
desiderava non si venisse all'apertura del concilio sino al suo ritorno.
Ma in fine dell'altro mese la maggiore
parte de' vescovi, spinti chi dalla povertà, chi dall'incommodo, fecero querele
grandissime et eccitata tra loro quasi una sedizione, minacciavano di partirsi,
ricorrendo a Francesco Castelalto, governatore di Trento, qual Ferdinando aveva
deputato per tenere il luogo suo, insieme con Antonio Gineta. Egli si presentò
a' legati e fece loro instanza, per nome del suo re, che ormai si dasse
principio, vedendosi quanto bene sia per seguire dalla celebrazione e quanto
male dal temporeggiare cosí. Di questo i legati si riputarono offesi,
parendogli che era un volere mostrar al mondo il contrario del vero et
attribuir a loro quella dimora che nasceva dall'imperatore; e quantonque
avessero tra loro risoluto di dissimulare e rispondere con parole generali,
nondimeno il cardinale del Monte non poté raffrenare la sua libertà che nel
fare la risposta non concludesse in fine, confortandolo ad aspettare don Diego,
il quale aveva piú particolari commissioni di lui. Grande era la difficoltà in
trattenere e consolare i prelati che sopportavano malamente quella ociosa
dimora, e massime i poveri, a' quali bisognavano danari e non parole: per il
che si risolsero di dare a spese del pontefice 40 ducati per uno a' vescovi di
Nobili, di Bertinoro e di Chioza, che piú delli altri si querelavano: e temendo
che quella munificenza non dasse pretensione per l'avvenire, si dichiararono
che era per un sussidio e non per provisione. Scrissero al pontefice dandogli
conto di tutto l'operato e mostrandogli la necessità di sovvenirgli con qualche
maggior aiuto; ma insieme considerandogli che non fosse utile dar cosa alcuna
sotto nome di provisione ferma, accioché i padri non paressero stipendiarii di
Sua Santità, e restasse fomentata la scusa de' protestanti di non sottomettersi
al concilio per essere composto de soli dependenti et obligati al papa.
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